La sera del 10 gennaio si è svolto nella Sala Vanvitelli dell’Avvocatura Generale dello Stato un interessante dibattito sulla desiderabilità e fattibilità di un referendum sul Fiscal compact. È bene, ma tardivo, che si parli oggi dell’unione monetaria e del ruolo dell’Italia, nonché soprattutto delle politiche economiche che l’euro comporta. Sarebbe stato utile farlo venti anni fa prima di assumere impegni che abbiamo difficoltà a onorare. Non è questa la sede per una cronaca del dibattito, ma per alcuni spunti di riflessione.



A ventidue anni dal Trattato di Maastricht ci sono varie scuole. Alcuni economisti (Bagnai, Borghi, Rinaldi) propongono di uscire dell’area dell’euro, ma non hanno presentato per il momento analisi dei costi e dei benefici che ciò comporta. Il Segretario del partito di maggioranza relativa, Matteo Renzi, si dice convinto che se l’Italia approverà la riforma elettorale e le leggi sul lavoro l’Ue ci guarderà con condiscendenza e ci condonerà. Altri pensano che siano ancora necessarie “lacrime e sangue” per stare con la testa alta nell’Ue. La posizione del gruppo I viaggiatori in movimento, animato dal Prof. Gustavo Piga, è quella di promuovere un referendum sul Fiscal compact.



Non credo che sia una strada facilmente percorribile. In primo luogo, il referendum dovrebbe essere non nei confronti della legge di ratifica Fiscal compact, un protocollo intergovernativo, ma su alcuni aspetti della legge costituzionale redatta in base al Compact e sulla legge d’attuazione “rafforzata”. Il panel di giuristi presenti alla riunione (Paolo de Ioanna, Antonio Brancasi, Giacinto della Cananea, Nicola Lupo, Eugenio Picozza, Giulio Salerno) non è stato affatto unanime, anche se pare che ci sia qualche stretto pertugio. Anche ove un referendum fosse ammissibile nei confronti di una legge costituzionale, o più facilmente della legge di attuazione, non credo che sarebbe facile spiegarne le ragioni agli italiani e raccogliere le necessarie 500.000 firme.



La strada migliore sarebbe riscrivere il Trattato di Maastricht e far ratificare il nuovo testo dopo ampio dibattito parlamentare o, negli Stati che lo consentono, dopo referendum. Dovrebbe diventare punto centrale della politica europea dell’Italia. Lo ha proposto alcuni mesi fa il Primo ministro finlandese durante una visita ufficiale a Roma: si dovrebbe cogliere la palla al balzo.

Occorre, però, fare attenzione. Oggi, con un alto disagio sociale (disoccupazione, povertà), l’euro è diventato un “monatto”, un untore e propagatore di peste a cui si attribuiscono tutti i mali. Le mitragliate anti-euro portano qualche (breve) consenso, ma pochi voti. Soprattutto in quanto si tratta di critiche strillate e spesso con pochi riferimenti alla storia economica e alla teoria economica.

È molto difficile far funzionare un’unione monetaria con paesi, e politiche economiche, così differenti. Nella mia vita adulta ho visto saltare 15 unioni monetarie, sovente da un giorno all’altro, non sempre a mercati chiusi. Le più ampie furono la zona della sterlina nel 1967 e l’area del rublo nel 1990. Ne ho visto sorgere una sola: quella dell’euro, nata sulla scia della riunificazione tedesca che la Francia temeva non avrebbe reso fattibile la continuazione dell’applicazione del Trattato del Louvre del 1987. Nessuna di queste unioni monetarie teneva conto degli aspetti di fondo della teoria e dell’analisi economica.

Ho avuto la fortuna di studiare con Robert Mundell, il Premio Nobel che ha formulato la teoria dell’area valutaria ottimale, con Randall Hinshaw, l’artefice del ritorno alla convertibilità nei paesi area Ocse, e Isaiah Frank, che, alternando carriera accademica con incarichi pubblici, è stato sottosegretario di Stato per gli affari economici negli anni in cui si preparava la crisi che portò alla fine del “regime” monetario detto di Bretton Woods. Oggi sta aumentando il divario tra paesi del Nord e del Sud Europa, come previsto vent’anni fa da un saggio di Martin Feldstein e da uno di Alberto Alesina, Enrico Spolaore e Romain Wacziarg. Ora lo conferma un recente documento della Banca nazionale del­le Finlandia, Paese poco tenero con i “meridionali” dell’euro.

Il Premier finlandese vuole rinegoziare il Trattato di Maastricht perché nel­l’area dell’euro sta aumentando la divergenza tra paesi che cre­scono e paesi che si contraggono. La moneta unica – dice il tito­lo del lavoro – sta unendo o dividendo quel che resta dell’Ue? Utile la proposta di Jean Pisani-Ferry, direttore di un gruppo di economisti europeisti detto “Bruegel” . Ci sono – ha scritto – due possibilità: un “salto” verso l’unione politica oppure un’unione economica decentralizzata i cui gli Stati abbiano piena sovranità in materia di politica di bilancio e dichiarino lo stato d’insolvenza se non sono in grado di fare fronte al debito, in modo che pure le banche vivano e imparino a valutare il rischio. Si avrebbe una moneta unica senza una vera unione monetaria. Verrebbero penalizzate non solo le banche, ma anche i governi.

È certo comunque che non sarebbe proponibile “morire di Fiscal compact” con manovre finanziarie di 50 miliardi di euro l’anno non appena riprenderà la crescita e non si potrà fare appello a circostanze “eccezionali” per non ridurre drasticamente il debito pubblico. 

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