«Buona parte dell’aumento del nostro debito pubblico è stato prodotto dai fondi Ue per i paesi euro-deboli pagati dall’Italia. Il nostro Paese non è tra i beneficiari di questo fondo, ma ha finanziato gli aiuti alla Grecia». Lo rimarca Mario Deaglio, professore di Economia internazionale all’Università di Torino, dopo che Bankitalia ha reso noto che nel mese di novembre il debito pubblico italiano è salito di 18,7 miliardi di euro, raggiungendo in totale i 2.104 miliardi di euro. Calano le entrate tributarie, che nei primi 11 mesi del 2013 sono state di 339,1 miliardi, in diminuzione rispetto allo stesso periodo del 2012 quando erano state pari a 340,7 miliardi di euro. Nello stesso tempo l’Istat ha fatto sapere che il tasso di inflazione medio del 2013 in Italia si è attestato all’1,2%, in calo dal 3% del 2012, registrando il livello medio annuo più basso dal 2009. Per il professor Deaglio, «l’inflazione bassa, la domanda interna fiacca e la disoccupazione fanno sì che il gettito diminuisca e di conseguenza aumenti il debito pubblico».



Oltre al pagamento dei fondi Ue per i paesi euro-deboli, quali sono le altre cause dell’aumento del debito pubblico italiano?

L’aumento del debito pubblico conferma che la nostra finanza non è ancora assestata. La spesa pubblica continua a crescere nonostante tutti i tentativi di tenerla sotto controllo, e su questo incidono anche gli interessi sul debito. Nonostante tutti gli sforzi fatti finora, la tendenza all’aumento della spesa pubblica dipende anche da fattori di struttura della società italiana. Aumenta il numero dei pensionati, si allunga la vita, gli anziani si ammalano più facilmente e quindi tendenzialmente la spesa sanitaria aumenta. L’alta disoccupazione si riflette sui sussidi e sulla cassa integrazione. Il quadro è quindi quello di un malato che deve avere una scossa per ripartire.



C’è un collegamento tra il debito pubblico in aumento e l’inflazione in calo?

Sì, c’è un collegamento. Un Paese come il nostro che ha questi pesi strutturali che si riflettono in un aumento della spesa pubblica e quindi del debito, si trova anche a dover pagare degli interessi sul debito che adesso incominciano a decrescere, ma che in passato sono stati molto alti. Non abbiamo importato inflazione dall’estero in questo periodo, anche perché nell’ultimo anno il prezzo del petrolio in euro è rimasto stabile o è diminuito. L’inflazione salariale non esiste, perché ci sono condizioni tali per cui non è nemmeno possibile parlare di richieste di aumento degli stipendi. La domanda interna è fiacca e ciò fa sì che non ci sia la possibilità per il sistema distributivo di aumentare i propri margini, anzi semmai c’è una tendenza a ridurli con i saldi o con altre promozioni di questo tipo. Abbiamo dunque una situazione tipica dei periodi di bassa congiuntura.



La diminuzione delle entrate tributarie è causata proprio dalla domanda interna fiacca?

Sì. L’Iva è un’imposta sul volume d’affari, e quando questo volume si riduce il gettito tende a ridursi anche se si aumenta l’aliquota. Questa aliquota più alta si applica su una massa di transazioni più basse. A ciò si aggiunga il fatto che quando l’occupazione non tira o tende a scendere, anche se non di molto, e i salari degli occupati sono fermi, ciò provoca una riduzione del gettito Irpef.

 

L’inflazione bassa non dovrebbe però comportare il fatto che si paghino meno interessi sul debito?

In linea di massima sì, anche se questo è un discorso che ha senso soltanto a parità di rischio. Per le banche in questo momento le imprese sono un impegno più rischioso di quello che erano prima della crisi. La probabilità di aumentare le sofferenze bancarie è molto elevata, tanto è vero che quest’ultime sono a livelli record.

 

(Pietro Vernizzi)