L’angolo dell’umorismo, spero inconsapevole. Il presidente della Commissione europea, Josè Manuel Barroso, esprime ottimismo, ma invita a non abbassare la guardia: «La recessione è alle spalle, ma non c’è spazio per il compiacimento. Non possiamo dire che siamo fuori dalla crisi, perché la disoccupazione è ancora troppo alta. Ma il 2014 sarà un anno positivo, di cambiamenti per l’economia europea». Accidenti, quando uno è statista è statista, c’è poco da fare: in effetti la recessione è alle spalle, siamo in deflazione ora. Per Barroso, inoltre, «alle imprese, specialmente a quelle piccole e medie, mancano i mezzi finanziari per investire nel rilancio necessario per uscire dalla crisi». Verissimo. Ma, mi chiedo: Barroso non è uno di quei cosiddetti “regolatori”, anzi uno dei più importanti, che questi problemi dovrebbero risolverli, invece che enumerarli e basta? Per cosa è pagato, per fare il mio lavoro o il suo?
Va beh, terminate le miserie, passiamo alle cose serie. Il governatore della Banca centrale austriaca, Ewald Nowotny, membro votante del consiglio direttivo della Bce, durante una conferenza a Vienna, ha espresso un forte ottimismo sulle prospettive di crescita dell’Eurozona nel 2014 (+1% per Eurolandia, +2% per Germania e Austria) e ha detto che l’Eurotower non vede alcun rischio di deflazione nella zona euro nel breve termine o nel medio periodo. Perfetto, un altro miope messo ad accompagnare non vedenti che devono attraversare la strada. Ma come vi dicevo alcune settimane fa, il nodo è arrivato al pettine. E la Germania sta alzando l’asticella dello scontro con Draghi.
Sabine Lautenschlager, vicepresidente della Bundesbank, proposta dall’Ecofin come successore di Joerg Asmussen al consiglio esecutivo della Bce, in una serie di riposte scritte alle domande poste dal Parlamento europeo – organo che dovrà votare la sua nomina – ha infatti avvertito sui rischi di tassi di interessi bassi, sottolineando come alcune misure «dovrebbero finire il prima possibile a causa degli effetti collaterali». La Lautenschlager ritiene quindi opportuno che la Bce rialzi il prima possibile il costo del denaro perché i bassi tassi di interesse «stimolano l’attività economica ma non sono privi di rischi nel lungo termine». Ma non è tutto. Il vicepresidente della banca centrale tedesca ha chiesto inoltre che venga messa la parola fine al trattamento preferenziale dei titoli di Stato, considerati dalle autorità bancarie alla stregua di asset privi di rischio.
Tenendo conto che la posizione di Lautenschlager è più vicina a quella di Jans Weidmann, presidente della Bundesbank e noto falco contro le politiche espansive, rispetto a quella di Asmussen, che andrà a sostituire poiché questo entrerà come vice-ministro nella Grosse Koalition tedesca, è lecito attendersi che lo scontro all’interno del board della Bce possa inasprirsi nei prossimi mesi. O, forse, settimane, visto che non più tardi di giovedì scorso Mario Draghi aveva detto chiaro e tondo che in sede di Asset Quality Review i bond sovrani verranno trattati come disciplinare di Basilea impone, ovvero risk-free. Cosa vi dicevo un paio di settimane fa che la battaglia sarebbe stata Germania contro tutti e che il casus belli sarebbero stati i bond sovrani detenuti dalle banche e il loro trattamento a bilancio?
Ma c’è dell’altro dal fronte europeo, notizie che difficilmente vi verranno riportate dalla grande stampa. Il commissario agli Affari economici, il mio caro amico Olli Rehn, intervenendo all’audizione alla commissione economica dell’Europarlamento, ha reso noto di ritenere che la Troika in futuro debba far parte «del quadro istituzionale europeo nell’ambito di un approfondimento dell’unione di bilancio». Insomma, commissariamento ex ante per tutti. Poi si lamentano se la gente è euroscettica e parla di Unione sovietica europea.
In compenso, l’Italia va benone. Ieri, infatti, si è registrato il nuovo record del debito pubblico italiano, aumentato a novembre di 18,7 miliardi, raggiungendo un nuovo massimo storico a 2.104,1 miliardi. Banca d’Italia, nel Supplemento “Finanza pubblica, fabbisogno e debito”, spiega che l’aumento è riconducibile principalmente al fabbisogno del mese (6,9 miliardi) e all’aumento (11,5 miliardi) delle disponibilità liquide del Tesoro che hanno raggiunto 59 miliardi. Ma non solo. Sul fabbisogno ha anche inciso per 12,8 miliardi il sostegno finanziario ai Paesi dell’area dell’euro; in particolare, la quota di competenza dell’Italia dei prestiti erogati dall’European Financial Stability Facility (Efsf) è stata pari a 6,7 miliardi, mentre i versamenti della terza e quarta tranche della sottoscrizione del capitale dell’European Stability Mechanism (Esm), effettuati nei mesi di aprile e ottobre, sono stati complessivamente pari a 5,7 miliardi. Insomma, 12,4 miliardi di euro che l’Italia ha versato per garantire ai paesi sotto programma di salvataggio di ricevere la loro tranche con la quale pagare gli interessi sul debito pubblico a soggetti privati detentori e non per rimettersi in carreggiata e uscire dalla recessione, quella che Barroso dice essere finita.
E noi dovremmo prendere ordini da Bruxelles e dalla Germania? Dovremmo permettere alla Bundesbank di mandare scossoni sul mercato obbligazionario sovrano con le intemerate da falco della sua numero due? Con quello che versiamo per garantire a banche e fondi di veder onorati i loro coupon e cedole? Io davvero non capisco cosa aspettiamo ad alzare la voce, poi però prendo in mano un quotidiano – uno a caso – e vedo che le principali preoccupazioni sono la legge elettorale, il caso De Girolamo e un po’ più defilato il Jobs Act del Pd: a quel punto, non mi resta che ammettere che ci meritiamo di essere commissariati.
Nel frattempo, però, il Paese è fermo, la domanda interna schiantata, i consumi ai minimi. Ieri l’Istat ha confermato che il tasso d’inflazione medio annuo per il 2013 è pari all’1,2%, in decisa frenata rispetto al 3,0% registrato nel 2012. Si tratta del livello più basso dal 2009, ovvero da quattro anni: il tasso risulta di due volte e mezzo inferiore a quello dell’anno precedente, due volte e mezzo! Le decelerazioni più marcate riguardano i prezzi dei trasporti (+1,2%, da +6,5% del 2012), dell’abitazione, acqua, elettricità e combustibili (+2,1%; era +7,1% il precedente anno), delle bevande alcoliche e tabacchi (+1,4%, da +5,9% del 2012), dei servizi sanitari e spese per la salute (+1,5%, da +4,3% del 2012) e dell’abbigliamento e calzature (+0,3%; era +2,2% nel 2012). L’Istruzione è stata l’unica divisione per la quale si rileva una accelerazione nella crescita dei prezzi (+2,5%, dal +2,3% del 2012). Si è accentuata sensibilmente la flessione in media d’anno dei prezzi delle comunicazioni (-5,1%, da -1,5% del precedente anno). Insomma, inflazione a questi livelli significa domanda a zero, consumi a zero, Paese in ginocchio. Ma alcuni lettori, soprattutto la scorsa settimana, hanno ricominciato a bacchettarmi per il mio presunto pessimismo – che io chiamo realismo -, invitandomi a guardare anche i dati positivi che ci sono, i primi vagiti di ripresa ed enfatizzarli.
L’ho fatto, sono andato a vedere l’unico dato macro che offriva spunti di ottimismo, ovvero il dato della produzione industriale, cresciuta a detta dell’Istat nel mese di novembre addirittura dell’1,4%. Direte voi, bene, sta ripartendo il ciclo produttivo. Sì, nei sogni dell’Istat, perché sempre a novembre – dato Terna – i consumi energetici sono calati del 2% e stando a Banca d’Italia si è registrata la peggiore contrazione del credito all’impresa dall’inizio della crisi: quindi, o in Italia – a mia insaputa – abbiamo scoperto una fonte di energia alternativa all’elettricità (magari ricariche di plutonio come quelle che facevano funzionare l’automobile di “Ritorno al futuro”) e anche una di finanziamento alternativo al sistema bancario per far lavorare le aziende (micro-credito? Baratto? Pagamenti in natura dei fornitori?) oppure una tra Istat e Terna racconta balle. Lascio a voi decidere, io l’ho già fatto. E mi tengo stretto il mio pessimismo.
E sapete perché? Perché nonostante Barroso e Nowotny, sono già tre gli Stati in deflazione conclamata: Grecia, Cipro e Lettonia. L’economia greca è entrata in trend deflazionistico nel marzo 2013 e non si è mai ripresa, tanto che nel mese di dicembre i prezzi al consumo armonizzati Ue sono scesi dell’1,8%, la più lunga striscia deflazionistica dal 1968 e la peggiore da quando Bloomberg raccoglie i dati al riguardo. Basta guardare questo grafico. A oggi, l’economia greca è ancora più piccola del 21,3% rispetto a quanto fosse nel terzo trimestre del 2007, ma nonostante questo i titoli azionari greci sono saliti del 19% negli ultimi nove giorni, ai massimi da tre anni. È come vi dicevo ieri rispetto al trend della Borsa italiana: c’è un progetto di fondo, finanziarizzare la politica, scollegare finanza ed economia reale. I paesi muoiano di riforme e austerity, le banche macinano soldi su soldi. E dettano l’agenda ai politici fiancheggiatori di turno.