Non ne parlo da un po’ di tempo, quindi cominciamo col rinverdirvi la memoria. Il Baltic Dry Index (BDI) è un indice dell’andamento dei costi del trasporto marittimo e dei noli delle principali categorie delle navi “dry bulk” cargo. Malgrado il nome indichi diversamente, esso raccoglie i dati delle principali rotte mondiali e non è ristretto a quelle del Mar Baltico e le informazioni relative alle navi cargo che trasportano materiale “dry”, quindi non liquido (petrolio, materiali chimici, ecc.) e “bulk”, cioè sfuso. Riferendosi al trasporto delle materie prime o derrate agricole costituisce anche un indicatore del livello della domanda e dell’offerta di tali merci. Per queste sue caratteristiche, quindi, viene monitorato per individuare i segnali di tendenza della congiuntura economica.



Bene, cosa ci dice il BDI? Che dal 1 gennaio è letteralmente crollato del 40%, nove cali di fila in nove giorni di trading, il peggior inizio di anno da oltre trent’anni. Quindi, che la famosa ripresa globale è una pia illusione. Ma non è detto. Guardate il primo grafico a fondo pagina di Intermarket&More: ci mostra la comparazione tra il BDI e il CESI (Citigroup Economic Surprise Index), indice che prende i vari dati macro delle economie mondiali, calcola le eventuali deviazioni standard delle “sorprese” e ci offre lo stato di salute del mercato e dell’economia di un determinato Stato o area geografica. Bene, come potete vedere, il BDI e il CESI divergono completamente: il primo ci dice che è in atto un rallentamento spaventoso dei processo economico, l’altro ci dice che il meglio deve ancora venire, previsioni rosee che più rosee non si può. A chi credere, insomma?



Guardate il secondo grafico: è la correlazione storica tra andamento del BDI e i dati macro del G10, ovvero delle prime dieci economie del mondo. Tendo a fidarmi più del BDI ma vedremo, il tempo è galantuomo. Una cosa è certa: la sconnessione totale tra economia reale e finanza, plasticamente dimostrata. In compenso, è già in atto un qualcosa che è strettamente correlato a quanto discusso finora: ovvero, un ritorno in grande stile del protezionismo e del nazionalismo legato al mercato delle commodities.

Con l’inizio dell’anno, infatti, l’Indonesia ha posto un bando totale all’export di nickel, bauxite e stagno, portando a un immediato balzo del prezzo del nickel a Londra ai massimi da due settimane a 14,90 dollari la tonnellata, reazione naturale dei mercati alla sparizione del 20% della fornitura mondiale di questo componente fondamentale per l’acciaio stainless. E non solo l’Indonesia sta alzando muri potenzialmente in grado di creare shock sull’offerta: molti paesi africani ricchi di petrolio e gas stanno votando leggi per restringere l’operatività di industrie straniere e in Sudafrica è sempre più crescente la richiesta di nazionalizzare le miniere. Anche parecchi Stati sudamericani stanno restringendo la politica delle quote o imponendo nuove tasse, nonostante alle spalle abbiamo un calo del prezzo delle commodities che dura da 30 mesi: queste politiche, insomma, potrebbero essere una sorta di assicurazione per quando il ciclo tornerà rialzista.



Stando all’agenzia di analisi del rischio Maplecroft, il 15% delle nazioni al mondo sta facendo i conti con una crescita del nazionalismo negli ultimi quattro anni, citando il caso dell’esproprio da parte del governo argentino de gruppo petrolifero spagnolo YPF. In cima alla lista figura lo Zimbabwe, seguito da Venezuela, Congo, Bolivia, Iraq e Kazakhstan, con la Russia 14ma, l’Argentina 20ma e l’Indonesia 24ma, peggio dell’Iran. Jero Wacik, ministro dell’Energia indonesiano, ha giustificato il bando con la necessità di migliorare il valore dell’industria mineraria nazionale, ma in molti pensano che durerà poco, vista la fragilità dell’economia indonesiana, già colpita da una forte fuga di capitali e dal crollo della rupia a causa del “taper” della Fed che drena liquidità dai mercati globali. Insomma, si mostra la faccia cattiva per arrivare a una mediazione: ovvero, più quote di export e più tempo alle aziende straniere che operano ma in cambio di investimenti.

Almeno così c’è da sperare, perché nickel a parte lo shock più grande potrebbe arrivare dalla bauxite, visto che la Cina dipende all’80% dall’export indonesiano di quel materiale, necessario per la produzione dell’alluminio. Sul finire dello scorso anno, l’Indonesia ha prodotto il 20% di tutta l’offerta di bauxite mondiale, specializzandosi proprio sul tipo a bassa temperatura utilizzata dall’industria cinese. Se il bando non sarà solo una minaccia, si andrà incontro a una sottofornitura entro sei mesi, massimo un anno e i prezzi voleranno alle stelle, visto che ci vorrebbero anni per rimpiazzare la bauxite indonesiana con quella australiana, la cui produzione è enormemente inferiore rispetto a quella di Jakarta. Interverrà l’Organizzazione mondiale del commercio, la quale con l’articolo 20 permette alle nazioni di imporre bandi all’export sono per ragioni ecologiche o per combattere l’inquinamento?

Quasi certamente dovrà farlo, perché se l’Indonesia non recederà dalla sua intenzione, gli investitori stranieri in quel Paese porranno sotto enorme pressione il WTO, anche attraverso l’azione di lobbysmo che è tra le loro specialità. C’è però una carta in mano alle nazioni come l’Indonesia, ovvero la dura denuncia delle Nazioni Unite, a detta delle quali molte compagnie attive nel comparto agricolo stanno abusando del pianeta, comprando enormi appezzamenti di terreno per quattro soldi, garantendosi in pochi anni enormi profitti e poi andandosene quando i terreni sono ormai degradati, inutilizzabili e in alcuni casi inquinati. E non pensiate che sia un ragionamento eccessivamente di sinistra, perché Nick Holland, capo di Gold Fields, quindi non esattamente un black bloc, ha sottolineato come «i dirigenti delle aziende minerarie, preoccupati da quanto sta avvenendo, hanno soltanto loro stessi da biasimare, perché esagerando i loro profitti si sono messi nella condizione di diventare bersagli facili per i governi, soprattutto quelli nazionalisti».

Insomma, le commodities e i loro prezzi potrebbero dirci molto, nei prossimi mesi, sull’andamento della ripresa a livello globale. E c’è di più, potrebbero anche darci qualche segnale in più riguardo possibili correzione dei corsi. Ne è certo Albert Edwards, analista di Societe Generale e uno dei più lucidi e attenti osservatori della crisi in atto. Guardate questo grafico che ha elaborato: ci mostra la totale divergenza tra prezzi delle commodities ed equity market nel corso del terzo round di Quantitative easing della Fed.

Perché a detta di Edwards è importante? Per il semplice fatto che, assiomaticamente, tutti pensano che il Qe sia comunque e sempre una cosa positiva per le equities e che quindi queste possano attraversare shock transitori anche forti senza problemi proprio per l’ontologica presenza di quella liquidità. Il problema è che la stessa logica è valsa fino al 2012 anche per il prezzo delle commodities, salvo però sparire durante il terzo round, il quale non ha avuto alcun tipo di impatto se non per le equities. Anzi, il prezzo delle commodities, petrolio a parte, è letteralmente crollato. Quindi, per Edwards, se dovesse tornare la recessione e i profitti crollassero man mano che la Fed diminuirà la sua liquidità, chi ci dice che anche l’equity market non prenda la direzione dei prezzi delle commodities, schiantandosi?