Prezzi in picchiata, redditi sempre più bassi e crescita inesistente o negativa. Sono i sintomi di una malattia che gli economisti chiamano deflazione. A lanciare l’allarme è stato il direttore del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, secondo cui “le prospettive sono ancora soggette a significativi rischi” e lasciano intravvedere lo spettro della deflazione, che sarebbe “disastrosa per la ripresa”. In sintonia con lei il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, secondo cui “nell’area euro emergono rischi di deflazione e di un prolungato periodo di bassa attività economica, amplificati dalle esigenze di consolidamento fiscale e di politiche di bilancio necessariamente restrittive”. Per Giulio Sapelli, professore di Storia economica all’Università degli Studi di Milano, l’unica “medicina” possibile per curare la deflazione è costituita da «meno tasse, allargamento della base monetaria, favorire gli investimenti e soprattutto i profitti delle aziende, unitamente all’aumento dei salari».
La deflazione che sta attraversando i paesi sviluppati ha dei precedenti significativi?
Il caso più recente di deflazione è stata la cosiddetta “sindrome giapponese”. Si è trattato di una manifestazione di profonda recessione che è avvenuta in un modo interamente nuovo rispetto al passato. Prima di allora eravamo abituati a coniugare inflazione e recessione. All’origine della sindrome giapponese ci furono gli accordi del Plaza Hotel del 1985. L’ondata di esportazioni giapponesi, soprattutto nel campo dell’hi-fi e dell’automotive ,preoccuparono gli Stati Uniti al punto che decisero di intervenire. Il Giappone fu costretto a rivalutare lo yen.
Quali furono le conseguenze?
La conseguenza fu l’inizio di una fase di deflazione. Le esportazioni, che all’epoca trainavano l’economia giapponese, crollarono e il Paese entrò in una profonda crisi da deflazione. I profitti delle imprese precipitarono portando a un abbassamento dei prezzi. L’assenza di circolazione monetaria e di crescita e la riduzione dei salari portò a una contrazione degli acquisti. L’effetto della deflazione è stata dunque la distruzione della domanda effettiva e il fatto che per 20 anni il Giappone non è cresciuto.
È una fase che dura tuttora?
Dopo la crisi del 2007-2008 la recessione si è propagata in tutto il mondo sviluppato. Gli Stati Uniti l’hanno respinta attraverso lo strumento del quantitative easing. In Giappone nel frattempo il Partito Liberal Democratico di Shinzo Abe ha vinto le elezioni e si è trovato ad affrontare due grandi necessità: riarmare il Paese e uscire dalla deflazione. Per farlo ha inondato il mercato di liquidità, facendo scendere lo yen e portando a registrare deboli segnali di ripresa.
Quali interventi risolutivi possono essere messi in atto contro la deflazione?
Sono gli stessi che auspica la Lagarde: mettere meno tasse, allargare la base monetaria, favorire gli investimenti e soprattutto i profitti delle aziende, unitamente all’aumento dei salari. Si tratta delle manovre classiche che aiutano la crescita, tra le quali come è noto c’è anche un po’ d’inflazione. Quest’ultima, pur essendo un’ “illusione finanziaria”, fa alzare i prezzi e quindi i margini di ripresa.
Le regole Ue consentono alla Bce questo tipo d’intervento?
Chiaramente le regole europee non consentono questo tipo d’intervento. La Bce è intervenuta ma in modo non efficace. Ha attuato un leggero quantitative easing, ma si è rivolta soprattutto all’acquisto di titoli di Stato e soprattutto a sostenere i debiti delle banche. Questi soldi non sono quindi affluiti nemmeno in minima parte al mercato interno, come le imprese e le famiglie, perché questo sarebbe vietato dallo statuto. Ma anche le stesse misure di Draghi, nell’ottica di un’interpretazione restrittiva dello statuto, sono vietate tanto è vero che la banca centrale tedesca ha sempre protestato contro questi interventi.
Avere un debito pubblico elevato produce effetti negativi particolarmente forti quando c’è la deflazione?
Questa idea non ha base scientifica, il debito pubblico è ininfluente. Il Giappone ha avuto la deflazione e nello stesso tempo un altissimo debito pubblico, anche se secondo le regole dell’economia neoclassica avrebbe dovuto non averlo. Il debito pubblico è un fattore endogeno della storia di un Paese, ogni caso ha motivazioni diverse e non si possono stabilire delle correlazioni meccaniche. Tanto è vero che il Giappone, nonostante il suo debito pubblico elevato, ne sta uscendo bene.
(Pietro Vernizzi)