L’annuncio della graduale privatizzazione di Poste Italiane tramite, almeno in parte, la vendita di azioni ai dipendenti, ha dato una scossa, quanto meno, mediatica al ritorno delle “denazionalizzazioni” in Italia. Ricordiamo che nel 2012 il Governo tentò di privatizzare l’Unione Ufficiali in Congedo, ma non riuscì a portare a termine neanche quella impresa. Il 2013 è trascorso in gran misura tra campagna elettorale, difficoltà di formare un Governo e quant’altro: solamente alla fine dell’anno sono state fornite indicazioni, peraltro preliminari, in materia di priorità di cosa privatizzare del patrimonio (aziendale e immobiliare) dello Stato – senza sfiorare il “capitalismo regionale e municipale” (per molti aspetti la vera “polpa” degli asset in mano pubblica).



È stato ricostituito il Comitato Privatizzazioni presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze. Ci sono, quindi, segni di azioni concrete, sempre che nuove elezioni e riforme costituzionali non diventino una ragione o un pretesto per dare un nuovo arresto al processo. Tuttavia, vorrei suggerire ai colleghi che su testate blasonate hanno brindato all’inizio di un eventuale processo di privatizzazione di Poste Italiane che l’Italia rischia di entrare tardi (e male) nella “terza ondata” di privatizzazioni.



Cosa intendo? Analizzando i lavori Ocse e quelli del Privatization Watch, della Fraser Foundation e della Banca mondiale, ci si accorge che, stilizzando, è in corso, a livello mondiale, una terza “fase” od “ondata” di denazionalizzazioni. La prima fu essenzialmente europea; iniziò sulla scia delle politiche liberiste, e liberalizzatorie, del Governo Thatcher all’inizio degli anni Ottanta, anche se arrivò in Italia solamente circa dieci anni più tardi, in parallelo, almeno temporale, con quella nei Paesi dell’Europa Orientale e nella stessa Russia, dopo l’implosione del “socialismo reale”. La seconda è avvenuta all’inizio degli anni Duemila, dopo la crisi della bolla “dot.com economy” e prima di quella iniziata nel 2007 e da cui non siamo ancora usciti; in quei cinque-sei anni i mercati erano molto liquidi e si andava alla ricerca di investimenti che guardassero al lungo termine. La terza è in atto da un paio di anni e ha varie determinanti: la politica monetaria espansionista negli Usa e in Europa, i fondi sovrani di Stati con ampie riserve minerarie, il disavanzo dei conti delle partite correnti Usa che gonfia le bilance dei pagamenti altrui, l’esigenza (specialmente in Europa) di smaltire il debito sovrano.



Mentre in Italia nel 2012 ci si arrabattava per tentare, senza esito, di privatizzare l’Unione Ufficiali in Congedo, nel resto del mondo sono state realizzate denazionalizzazioni per circa 250 miliardi di dollari nell’arco di 12 mesi; oltre dieci volte, in termini nominali, di quanto realizzato nel 1998, considerato nei testi universitari “l’anno d’oro” della prima ondata. Secondo un’analisi comparata del Fondo monetario internazionale, in Italia il valore degli asset non finanziari sotto il controllo delle pubbliche amministrazioni ammonta all’80% del Pil; la metà è nelle mani delle autonomie locali.

È un campo dove – lo ammettiamo – non è facile muoversi, ma negli Stati Uniti, guidati da Barack Obama (il quale non ha certo la reputazione di essere iper-liberista), il Federal Bureau of Land Management ha recentemente pubblicato una mappa del demanio federale da considerarsi in vendita; alcuni dei singoli Stati dell’Unione hanno fatto molto di più, cedendo (con le dovute garanzie ambientali), anche aree protette. Questo quadro indica che l’Italia rischia di arrivare tardi, quanto meno sotto il profilo finanziario. Non si può pensare che l’attuale situazione mondiale di liquidità resti a lungo – ci sono già cenni di aumento dei tassi d’interesse. Arrivare quando il fiume dell’equity va in seccagna vuol dire non vendere o mettere il banchetto dei supersaldi.

Una proposta operativa: accoppiare subito la cessione di Poste Italiane ai dipendenti con quella della Rai, abolendo l’imposta di scopo più regressiva e meno amata dagli italiani (il canone). Se i dipendenti Rai non vogliono diventare azionisti della loro azienda sarà un chiaro segno che non ne hanno grande stima e fiducia. Allora si potrebbe o utilizzare la proposta di Steve H. Hanke di Johns Hopkins (cederla agli italiani, distribuendo le azioni in base all’età anagrafica di ciascuno) oppure finanziare unicamente i “contenuti di effettivo servizio pubblico” (come avviene in numerosi paesi, anche la socialista Nuova Zelanda) quale che sia l’azienda che li trasmette dopo apposite gare concorsuali – un sistema analogo è già in vigore in Italia per il cinema e lo spettacolo dal vivo. Chi si ferma è perduto. 

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