Il “pasticcio” della privatizzazione di Bankitalia è in avanzata cottura: il 9 gennaio il d.d.l. di conversione è stato approvato dal Senato con alcuni, pochi emendamenti che non sciolgono i molti dubbi suscitati dal provvedimento d’urgenza e sui quali chi scrive si era soffermato su queste pagine: ora il procedimento prosegue dinnanzi alla Camera dei Deputati, ma v’è da credere che la ristrettezza dei tempi a disposizione (la data ultima cade il 29 gennaio prossimo) giochi a favore della positiva conclusione dello stesso. Lo scenario si fa anzi ancor più fosco, se si considera, da una parte, che neppure il parere contrario sui presupposti di costituzionalità, espresso dalla 1° Commissione permanente della Camera alta il 4 dicembre 2013, è bastato ad arrestarne il cammino e, dall’altra, che delle proposte correttive formulate dai parlamentari, spesso attinenti proprio agli aspetti più critici dell’improvvida scelta governativa, ben poche hanno raggiunto l’obiettivo prefissato. L’Istituto centrale italiano rischia, dunque, di divenire “la mosca bianca d’Europa” (così il Sen. Mucchetti in un’intervista a La Repubblica del 4 dicembre 2013).
È concreto, però, il sospetto che a un tale risultato – la collocazione, in un punto nevralgico dell’ordinamento, di un ircocervo: un istituto di diritto pubblico (art. 4 d.l. n. 133) con un capitale per la più gran parte in mano privata (il testo licenziato dal Senato non contempla più l’originaria clausola di apertura agli stranieri comunitari, formulata con riferimento alla sola sede legale e all’amministrazione centrale, senza alcuna limitazione in ipotesi di controllo di soggetti comunitari da parte di enti non europei) – si giunga anche a causa (o con l’ausilio) di una vera e propria pania di presupposti e convincimenti erronei, diffusi purtroppo anche in ambienti ministeriali e finanche nell’ambito dello stesso Istituto centrale. Vale la pena, allora, tornare sul tema, provando a disinnescare almeno alcuni degli equivoci che il dibattito – invero insufficiente, se si pone mente alla grande rilevanza dell’argomento – registra.
Il primo punto concerne i requisiti di straordinaria necessità e urgenza che, alla stregua dell’art. 77 Cost. devono sussistere affinché il Governo possa adottare un decreto legge: la loro assenza è, paradossalmente, attestata – come si è già avuto modo di rilevare – dalle premesse dell’atto di emanazione del Presidente della Repubblica, ove si fa riferimento all’esigenza di risolvere una pretesa questione di interpretazione (non solo inesistente, attesa la vigenza dell’art. 20 del R.D. n. 375/1936 e dell’art. 19, co. 10, l. n. 262/2005, entrambi abrogati proprio dal d.l. n. 133/2013, ma in ogni caso non tale da legittimare l’Esecutivo a provvedere, trattandosi di una sedicente questione ermeneutica protrattasi per più di vent’anni) e ad altrettanto asserite esigenze di adeguamento alla normativa europea, con richiamo a disposizioni che in nessun modo interferiscono con l’oggetto della decretazione d’urgenza.
Ma, più ancora, l’assoluta inidoneità di un provvedimento ex art. 77 Cost. a far fronte a questioni tanto complesse e, dunque, lo sviamento della scelta rispetto al fine dichiarato, si apprende con ogni possibile chiarezza dalla relazione del Governatore all’assemblea straordinaria dei partecipanti al capitale di Bankitalia del 23 dicembre 2013, convocata proprio per apportare allo statuto le variazioni conseguenti al d.l. n. 133/2013: dopo aver illustrato i punti qualificanti della riforma statutaria, Visco ha dovuto avvertire che, essendo il decreto ancora all’esame del Parlamento, “qualora la legge di conversione apporti modifiche alle norme primarie che richiedano interventi sulle disposizioni statutarie, sarà necessario convocare nuovamente l’Assemblea, in sede straordinaria, per gli adempimenti di rito”, mentre, già nel testo sottoposto al voto assembleare, anche per aspetti di primario rilievo (capitale e organi) “per assicurare al testo maggiore flessibilità e capacità di adattamento rispetto a eventuali modifiche in sede di conversione del d.l. 133/2013, viene operato un rinvio alla legge per quanto riguarda le categorie dei partecipanti, il limite alla singola partecipazione e il periodo transitorio durante il quale alle quote eccedenti il limite sono riconosciuti i dividendi, con esclusione del diritto di voto”.
In altri termini, come è stato poi correttamente rilevato, con ampiezza di motivazioni, in sede di esame del testo da parte della 6° Commissione permanente del Senato (Finanze e Tesoro) (si vedano, in particolare, le tre questioni pregiudiziali sollevate, rispettivamente dai Senatori Scilipoti, la prima, Molinari, Vacciano e altri, la seconda, De Petris, Uras e altri, la terza), si tratta di disposizioni di carattere ordinamentale di non immediata applicabilità, in violazione, altresì, dell’art. 15, co. 3, l. n. 400/1988.
D’altra parte – vi si è fatto cenno – già la 1° Commissione permanente (Affari costituzionali), il 4 dicembre 2013, aveva espresso, in sede consultiva, parere negativo sui presupposti di costituzionalità, essenzialmente sul rilievo della eterogeneità dei contenuti del decreto legge (relativo, com’è noto, anche all’Imu e alla alienazione di immobili pubblici) e della impossibilità di ricondurre i disposti concernenti la Banca d’Italia a una situazione straordinaria di necessità e di urgenza alla quale far fronte, stigmatizzando peraltro il comportamento del Governo, che avrebbe invece potuto presentare un disegno di legge, così consentendo alle assemblee rappresentative di svolgere l’istruttoria tipica dei procedimenti legislativi ordinari.
È lecito, però, chiedersi se tali profili di incompatibilità tra le norme relative all’Istituto centrale e l’art. 77 Cost. non dovessero indurre già il Capo dello Stato – il quale ha reiteratamente manifestato di intendere il proprio legame con il Governo in senso particolarmente attivo – a rifiutare, nell’esercizio della funzione di cui all’art. 87, co. 5 Cost., l’emanazione del provvedimento in questione, magari indicando all’Esecutivo – com’è già avvenuto in passato (vedasi la lettera dello stesso Presidente della Repubblica del 15 luglio 2009) – la strada della iniziativa legislativa: vero è, infatti, che la carenza dei presupposti per la decretazione d’urgenza ridonda, sul piano soggettivo, in carenza di potere in concreto, ponendo, dunque, delicate questioni – in un momento storico che, dal 2011 a oggi, ha visto il succedersi di una serie di tentativi di riforme (sostanzialmente) costituzionali (basti pensare a quanto è accaduto con il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) per mezzo di tali atti – di assetto costituzionale della forma di governo, sulle quali proprio il Capo dello Stato sembra vocato a intervenire in funzione di riequilibrio.
E ciò tanto più se si considera che, nello stesso torno di tempo, in ordine ad altri provvedimenti d’urgenza, Napolitano ha opposto un veto alle scelte del Governo, peraltro in forma atipica, benché non si trattasse di misure di impatto sistematico così profondo, com’è invece il caso del d.l. n. 133/2013, che incide sulla prerogativa sovrana della funzione monetaria, pur nella diversa configurazione che essa ha assunto, quoad exercitium, però, e non già quoad titulum, in forza della creazione del Sistema Europeo delle Banche Centrali, che si risolve in una istituzione di tipo lato sensu consortile, già sperimentata in Italia, ovviamente in altro contesto e secondo altri presupposti, ai primi del ‘900, quando tale funzione era confidata a tre istituti di emissione.
Venendo, invece, alle questioni di merito, è opportuno soffermarsi innanzitutto sulla definizione della riforma in termini di privatizzazione, che, all’indomani dell’entrata in vigore del d.l. n. 133, il Ministro Saccomanni si è affrettato a rintuzzare, sostenendo che il decreto lascerebbe immutata la tipologia dei soci.
L’affermazione è, per così dire, figlia di uno degli equivoci ai quali sopra si faceva cenno: quello, cioè, secondo cui la titolarità delle quote di Bankitalia in capo a soggetti privati, a far data dai primi anni ‘90 del secolo scorso, sarebbe stata conforme alla previsioni normative in allora vigenti. Così non è, però: il d.l. n. 133/2013 ha abrogato due disposizioni (art. 20 R.D. n. 375/1036 e art. 19, co. 10, l. n. 262/2005) che prevedevano, viceversa, la prima la riserva di legittimazione al possesso di tali quote in capo a enti rientranti senza dubbio, per il regime giuridico loro applicabile, nell’ambito del diritto pubblico e, la seconda, l’obbligo di adottare un regolamento ai sensi dell’articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, che ridefinisse l’assetto proprietario della Banca d’Italia e disciplinasse “le modalità di trasferimento, entro tre anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, delle quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia in possesso di soggetti diversi dallo Stato o da altri enti pubblici”. Non può quindi convenirsi sull’assunto, fatto proprio anche dal Governatore Visco in sede di audizione davanti alla 6° Commissione permanente del Senato, nel corso del procedimento di conversione, secondo il quale l’assetto privatistico della Banca centrale ne avrebbe assicurato negli anni l’indipendenza e l’autonomia.
Ma la questione si avvita tutta intorno a questo erroneo presupposto, che deforma la prospettiva di interpretazione del significato e dello scopo della riforma: il nodo centrale resta, infatti, quello dell’ingresso dei privati (o piuttosto la legittimazione della finora illegittima permanenza) nel capitale dell’Istituto centrale, senza che, peraltro, da parte loro vi sia stato mai alcun conferimento, in danaro o in natura, avendo essi indebitamente beneficiato di quote che, secondo il previgente regime giuridico, non avrebbero potuto detenere. Il problema emerge con chiarezza proprio dalla lettura del testo presentato dal Governatore in occasione della suddetta audizione, della quale appare utile segnalare alcuni passaggi.
L’assioma di partenza di Visco è che il capitale in mano privata – descritto come esito “naturale” dei processi di privatizzazione degli enti creditizi pubblici – non sia, come pure è stato affermato dal Ministro Saccomanni, garanzia di indipendenza e di autonomia dell’Istituto: più semplicemente, tale situazione non avrebbe messo a rischio tali caratteri, perché, si dice, i diritti dei partecipanti non consentirebbero “di influire sulle numerose attività istituzionali svolte dalla Banca d’Italia, prime fra tutte la politica monetaria e la vigilanza bancaria e finanziaria”: “i diritti diversi da quelli di natura patrimoniale – circoscritti all’esercizio di funzioni amministrative, di controllo e di vaglio gestionale – riguardano l’approvazione del bilancio e l’elezione dei membri del Consiglio Superiore”.
Ora, è certamente singolare che una riforma di così grande impatto venga illustrata non già ponendone in evidenza i (presunti) vantaggi rispetto alla previgente disciplina, bensì tentando di prevenire le obiezioni facilmente opponibili circa i pericoli derivanti dalla ammissione al capitale della Banca centrale; né meno sorprendente è la mancanza di ogni riferimento, tantomeno esplicativo, in ordine al titolo del trasferimento delle quote, che sarebbero dovute rimanere in mano pubblica sino alla data di entrata in vigore del d.l. n. 133/2013 e che, con i connessi diritti, si trovano invece nella disponibilità dei privati da più di vent’anni.
Del resto, lo stesso Governatore, nel plaudire all’abrogazione dell’art. 19, co. 10, l. n. 262/2005 per volontà del decreto, si spinge sino ad affermare che la disposizione del 2005 non avrebbe trovato attuazione perché rifletteva “le incertezze per il contenuto e l’estensione dei diritti economici dei partecipanti al capitale, oggetto del possibile trasferimento ad enti pubblici”: la doverosa restituzione delle quote da parte dei privati che illecitamente le detenevano (dato l’allora vigente art. 20 R.D. n. 375/1936) diventa, nelle parole di Visco, un trasferimento a titolo oneroso. In altri termini, la legge del 2005 avrebbe astretto lo Stato a corrispondere ai quotisti un prezzo di acquisto delle partecipazioni. Ma, per quanto si è detto, le cose non stanno in questi termini.
Peraltro, anche a voler accedere alla tesi del Governatore, vi sarebbe da osservare che – in disparte ogni pur possibile considerazione sulla possibilità di far luogo a espropriazione di tali quote – l’esborso da sostenere allora sarebbe stato certamente inferiore a quello che, per quanto si dirà di qui a poco, la Banca d’Italia – con risorse pubbliche – dovrà affrontare per l’acquisizione dai quotisti della percentuale di capitale in mano loro, che ecceda il limite del 3% fissato dal decreto, tanto più a causa del regime giuridico di libera circolazione delle quote tra i soggetti privati appartenenti alle categorie ammesse a esserne titolari.
Non meno sorprendente è però l’affermazione che la legge del 2005 avrebbe dato luogo a “un profondo mutamento dell’assetto proprietario e di governance della Banca”, con effetti sull’indipendenza e sull’autonomia dell’Istituto. L’opinione del Governatore non ha fondamento né storico né giuridico: essa conferma invece l’erroneità dei presupposti che dovrebbero dare fondamento alla riforma. Ma lo sforzo di mitigare le preoccupazioni delineando le partecipazioni come fascio di diritti soprattutto patrimoniali non raggiunge l’obiettivo: non si comprende infatti, né lo chiarisce il Governatore, per quale ragione giuridica i frutti dell’attività (anche e in gran parte) pubblicistica esercitata dalla Banca d’Italia debbano essere percepiti da persone giuridiche private esercenti il credito o l’assicurazione.
Non solo: i diritti non patrimoniali – che, quantunque il Governatore non ne faccia cenno, comprendono anche il potere di concorrere alla deliberazione delle modifiche statutarie – concernono profili nevralgici non solo dell’organizzazione, ma anche dell’attività dell’Istituto, com’è reso palese dalle competenze menzionate dallo stesso Visco: basti por mente alle competenze del Consiglio Superiore, che, nella versione dello Statuto adeguata al d.l. n. 133/2013 (art. 19), spaziano dall’esame e approvazione del progetto di bilancio e della destinazione dell’utile netto, alla emanazione dei regolamenti interni dell’Istituto, alla determinazione della pianta organica, alla nomina e alla revoca dei reggenti presso le sedi e dei consiglieri presso le succursali, alla nomina dei corrispondenti della Banca all’estero, alla determinazione delle norme e delle condizioni per le operazioni della Banca, alla vigilanza sul rispetto dei requisiti di partecipazione al capitale della Banca e sulla ricorrenza dei requisiti di onorabilità in capo agli esponenti aziendali e ai partecipanti dei soggetti acquirenti, sino alla deliberazione su tutte le questioni concernenti l’amministrazione generale della Banca a esso sottoposte dal Governatore e diverse da quelle demandate all’assemblea dei partecipanti. Al Consiglio Superiore, peraltro, il Governatore è tenuto a fornire informazioni sui fatti rilevanti relativi all’amministrazione della Banca, tra i quali rientrano gli indirizzi strategici aziendali, il consuntivo annuale degli impegni di spesa, i risultati degli accertamenti ispettivi interni e gli impieghi della disponibilità dei fondi, delle riserve statutarie e degli accantonamenti a garanzia del trattamento integrativo di quiescenza del personale.
Benché, dunque, l’art. 19, co. 2, dello Statuto escluda che il Consiglio Superiore possa ingerirsi nelle materie relative all’esercizio delle funzioni pubbliche, nondimeno tale organo presiede all’organizzazione dell’ente, nei suoi aspetti soggettivi e oggettivi: con conseguente effetto di condizionamento, anche conformativo, di ogni attività della Banca, in forza del nesso inscindibile che lega la struttura alla dinamica della persona giuridica.
Il percorso intrapreso nella relazione si conferma poi erratico nei successivi passaggi: il presupposto giustificativo della riforma assume le forme della necessità di deconcentrare il capitale dell’Istituto, raccolto per la maggior parte nelle mani dei principali gruppi bancari privati, “a seguito dei processi di concentrazione avvenuti a partire dagli anni Novanta”. La (inesplicata) partecipazione dei privati rivela, dunque, un aspetto nocivo, benché non portato a chiara evidenza nel documento, in contraddizione con quanto poco prima esposto dal Governatore. La concentrazione di una rilevante quota di capitale in capo a pochi soggetti deve ritenersi suscettibile di incidere sul complessivo assetto della Banca centrale, con ricadute che vanno ben oltre il “problema di comunicazione e di immagine” alla quale fa riferimento il Governatore, il quale tuttavia invoca in pari tempo la necessità di cercare una soluzione “sotto il vincolo di mantenere una governance capace di assicurare nel tempo l’indipendenza dell’Istituto”.
In altri termini, traspare dalle stesse parole di Visco l’incongruenza tra il problema che si pone (la presenza di capitale privato) e il provvedimento governativo che avrebbe dovuto risolverlo: tanto ciò è vero che, subito dopo, egli si sofferma su pretesi dubbi che, prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 133, sarebbero sorti “sulla reale estensione dei diritti economici dei partecipanti”, appuntando le critiche sulle previgenti disposizioni statutarie che contemplavano l’attribuzione di dividendi computati in ragione percentuale delle riserve statutarie, mentre, a seguito del provvedimento d’urgenza, pur essendo stata aumentata la percentuale massima di parametrazione degli utili distribuibili (6% del capitale, passato peraltro da 156.000 euro a 7,5 miliardi di euro), è stata espunta la voce relativa alle riserve statutarie. Si dissolverebbero così gli equivoci creatisi in ordine a diritti dei quotisti “sulla totalità delle riserve della Banca”, mentre “la maggior parte dei redditi e del patrimonio della Banca derivano dal potere di emissione delle banconote, assegnato per legge alla Banca d’Italia in regime di monopolio. È il risultato del cosiddetto signoraggio, il cui ultimo beneficiario non può essere che lo Stato italiano”.
Merita soffermarsi su tale asserzione. Non soltanto perché essa segnala un’altra criticità della riforma – la rivalutazione è stata, infatti, compiuta portando, come si dice, parte delle riserve a capitale e, per di più, la relativa stima è stata fatta guardando ai futuri flussi finanziari generati dalle partecipazioni: è lecito chiedersi, allora, quale considerazione sia stata attribuita allo Stato, pur definito quale beneficiario della gran parte dei redditi e del patrimonio della Banca – ma anche perché si tratta di uno dei pochissimi cenni, e non solo nel documento che ne occupa, ove pare alludersi anche alle riserve auree dell’Istituto centrale, che, sia pure in carenza di ogni disposizione che lo preveda, vengono incluse nel patrimonio di Bankitalia.
Il cenno però non è rassicurante: sia perché i disposti normativi del d.l. n. 133/2013 non paiono fare alcun conto dello speciale regime giuridico dei redditi e del patrimonio (tanto ciò è vero che, aumentando, col capitale, i dividendi spettanti ai quotisti, riduce i proventi statali consistenti nell’attribuzione allo Stato degli utili non destinati a riserve e a dividendi), sia perché lo Stato (quale massimo ente rappresentativo della collettività) è titolare di una situazione giuridica soggettiva, avente a oggetto le riserve auree, che non può risolversi nella definizione di “beneficiario”, se è vero che, come aveva affermato anche il Direttore generale Salvatore Rossi, esse sono frutto del risparmio degli italiani.
E tuttavia, persino dalla prospettazione del Governatore – evidentemente favorevole al decreto legge – si evince che sarebbe stato ben più coerente con le finalità di garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia della Banca centrale reintegrare questa nell’alveo della legittimità, restituendo le quote di partecipazione a soggetti pubblici (così come previsto dalla l. n. 262/2005), eventualmente riconfigurando lo statuto giuridico della partecipazione, allo scopo di evitare – ché questo pare essere il profilo maggiormente rilevante nell’articolazione della dinamica statale concernente la funzione monetaria – che nella determinazione delle sue linee di azione il circuito dell’indirizzo politico di maggioranza possa ingerirsi esautorandone gli organi direttivi: è ben noto che il diritto pubblico contempla molte e diverse soluzioni organizzative che permettono di conformare i plessi amministrativi in guisa tale che siano loro garantite simili autonomia e indipendenza.
In tal modo, neppure si porrebbe la questione della equilibrata e diffusa partecipazione del capitale: obiettivo che, in ogni caso, non viene attinto mediante la limitazione della percentuale di quote detenibili da uno stesso soggetto. Per un verso, infatti, l’accesso al capitale è riservato esclusivamente ad alcune tipologie di enti (non v’è pertanto quella diffusione, né la prospettica circolazione pur evocata anche dallo stesso Visco), per altro verso la soglia massima del 5% (ridotta, poi, dal Senato al 3%) genera più problemi di quanti non dovrebbe risolverne.
L’art. 4, co. 6 d.l. n. 133/2013 – anche nella versione risultante dagli emendamenti approvati in Senato – dispone che, al fine di favorire il rispetto dei limiti di partecipazione, la Banca possa acquistare “temporaneamente” – previa autorizzazione del Consiglio Superiore, nel quale siedono i rappresentanti degli stessi quotisti – le proprie quote e stipulare contratti aventi a oggetto le medesime.
Tale sistema fa risaltare, innanzitutto, i profili di discriminazione che ne derivano, in termini di parità ed eguaglianza di trattamento all’interno del mercato bancario, nonché di incompatibilità con il divieto comunitario di aiuti di Stato, sui quali avevamo già richiamato l’attenzione dei lettori e che trovano autorevolissima conferma nel parere emesso dalla Bce (CON/2013/96) su richiesta del ministero dell’Economia (ma, diversamente da quanto si era letto, soltanto cinque giorni prima dell’approvazione del provvedimento: ciò che ha formato oggetto di severa ammonizione da parte dell’Istituto francofortese).
In secondo luogo, esso è il primum movens delle negoziazioni che, ad avviso di chi scrive, potranno confermare come il valore delle quote – in mancanza di una disposizione (che potrebbe peraltro risultare di dubbia legittimità alla stregua dei principi, non solo nazionali, di tutela della proprietà privata) che lo vieti e, più ancora, nel contraddittorio assetto che la Banca centrale italiana assume in seguito alla riforma – venga parametrato anche al patrimonio di Via Nazionale, comprendente, come si è detto, le riserve auree.
Non è forse un caso che il Senato abbia introdotto nell’art. 4, co. 6, il precetto secondo cui l’acquisto delle proprie quote da parte dell’Istituto debba avvenire con modalità tali da assicurare altresì la “salvaguardia del patrimonio della Banca d’Italia, con riferimento al presumibile valore di realizzo”: tale frammento della disposizione, di formulazione tutt’altro che perspicua, sembra proprio accedere alla prospettiva – che avevamo paventato già da tempo – che nella determinazione del valore di scambio delle quote assuma un ruolo rilevante anche la consistenza del patrimonio della Banca, nel quale vengono, ancorché senza base legale, comprese le riserve auree.
Si avverte, quindi, con urgenza progressivamente crescente la necessità che sulla questione delle riserve auree, della loro titolarità e della loro gestione, si esca fuori di equivoco, soprattutto in considerazione della funzione che esse assumono – e anche sul punto ci si è già altra volta soffermati – quale garanzia di sovranità della collettività nazionale, anche per l’ipotesi in cui sia necessario uscire dall’Eurosistema.
Né può bastare l’introduzione, sempre in via di emendamento, della previsione che (art. 4, co. 6-bis) “La Banca d’Italia riferisce annualmente alle Camere in merito alle operazioni di partecipazione al proprio capitale in base a quanto stabilito dal presente articolo”: la disposizione risponde a un fine commendevole, sebbene non sia capace, per evidenti ragioni di coerenza sistematica, di contraddire a quanto previsto dallo stesso art. 6 in relazione ai referenti economici della negoziazione delle quote.
(1- continua)