L’introduzione nel d.l. n. 133/2013, da parte del Senato in sede di approvazione del d.d.l. di conversione, dell’art. 4, co. 6-bis, in forza del quale “La Banca d’Italia riferisce annualmente alle Camere in merito alle operazioni di partecipazione al proprio capitale in base a quanto stabilito dal presente articolo”, risponde, come si diceva, all’esigenza – a fronte della privatizzazione della proprietà di Bankitalia – di mantenere un legame con lo Stato, almeno per quanto attiene al compimento di quelle operazioni di acquisto delle proprie quote sulle quali si sono appuntate anche le critiche della Bce. Ma l’obbligo di riferire dovrebbe essere esteso, per dare compiuta attuazione al principio del quale sembra essere espressione, all’intera attività dell’Istituto, atteso che la garanzia di autonomia e di indipendenza non può tralignare, come invece sembra evincersi da alcune opinioni, pur autorevoli e diffuse, in separazione della Banca dalla organizzazione statale. E qui si annida un altro equivoco: quello cioè delle forme, dei modi e dei limiti (e dunque, prima ancora, delle finalità) della diade “autonomia e indipendenza” dell’Istituto centrale.



Non è ovviamente possibile, in questa sede, intrattenersi funditus sul tema. Può nondimeno rilevarsi che ogni scelta in proposito deve conciliare le suddette esigenze di salvaguardia delle funzioni pubbliche che fanno capo a quella monetaria con il principio di sovranità popolare, il quale implica, ovviamente, che tutti i soggetti che, a vario titolo, esercitano attività i cui effetti contribuiscono a conformare l’assetto della collettività, devono essere sottoposti a istanze di controllo e, ove occorra, anche di correzione del loro operato, allorché se ne ravvisi l’incompatibilità (o addirittura la contrarietà) con gli interessi nazionali, per come definiti e apprezzati dalla collettività medesima e, soprattutto, in un regime rappresentativo, dagli organi che abbiano ricevuto investitura popolare.



Risulta, dunque, poco persuasivo l’argomento speso dal Governatore Visco, sempre nel corso della sua audizione, secondo cui, con specifico riferimento alla questione del valore del capitale, lo Stato non avrebbe titolo per autonomamente risolvere simili problemi, essendo invece tenuto a confrontarsi con la Banca “per rispetto del principio di indipendenza”, quasi che la seconda avesse una soggettività radicata in un ordinamento separato (e forse anche superiore) a quello statale, dal quale, invece, ripete il titolo di esercizio di una frazione della sovranità che in prima e ultima istanza spetta alla collettività popolare.



È insomma ben difficile reperire una qualche convincente giustificazione della scelta compiuta con il d.l. n. 133/2013, almeno per quanto attiene al basilare profilo della legittimità giuridica. Ciò si riflette, significativamente, nella difficoltà dello stesso Governatore (e dunque dell’Istituto, che pure ha avuto un ruolo primario nella confezione del provvedimento) a darne conto.

Il tentativo di far risaltare una linea di continuità tra il precedente e il nuovo assetto si infrange su ineludibili dati di diritto positivo. La sedicente limitazione dei diritti dei quotisti mal si concilia con il fascio dei poteri e delle facoltà che a essi spettano in forza del d.l. e dello statuto, a partire da quelli corrispondenti alle prerogative dell’assemblea (approvazione del bilancio, nomina dei membri del Consiglio Superiore, modifica dello Statuto). L’apertura del regime di circolazione delle quote (già di per sé di ben difficile giustificazione, in considerazione della natura pubblica delle funzioni proprie della Banca centrale e dei diritti non patrimoniali spettanti ai partecipanti) è rimesso, successivamente alla reintroduzione, da parte del Senato, di una clausola di gradimento da parte del Consiglio Superiore (emanazione, merita rammentare, dei quotisti) (art. 6, co. 5, lett. d) – il quale può annullare (ma non è dato comprendere con quali strumenti e con quali ricadute sul regime civilistico dei relativi negozi di trasferimento) la cessione delle quote – alla discrezionale valutazione del suddetto organo e, quindi, in misura molto rilevante, al “gradimento”, appunto, dei quotisti.

L’appartenenza del patrimonio (ivi comprese le riserve statutarie e, pur nel silenzio, solo a tratti allusivo, del Governatore, quelle auree) alla collettività (senza alcuna specificazione idonea a spiegare come tale imputazione si articoli concretamente dal punto di vista giuridico) non si riflette in alcuna disposizione e, viceversa, si rivela in contrasto sia con il regime dominicale delle quote (a prescindere dai diritti economici che vi corrispondono), sia con il sistema utilizzato proprio per fare luogo all’aumento di capitale (che ha sfruttato quelle riserve statutarie asseritamente di spettanza del popolo italiano: la Bce, nel suo parere, non ha mancato di ammonire circa la necessità che “tali riserve siano gradualmente ricostituite, nell’arco di un periodo di tempo adeguato, fino all’ammontare ritenuto necessario a salvaguardare il capitale e le attività della Banca d’Italia”), sia, ancora, con la previsione di cui all’art. 4, co. 6, d.l. n. 133/2013, a mente del quale anche l’acquisto delle proprie quote da parte della Banca debba avvenire tenendo conto del patrimonio dell’Istituto: il che, come si è avuto modo di sottolineare più volte, corrisponde alla ordinaria prassi delle negoziazioni di mercato aventi a oggetto titoli rappresentativi di capitale.

Il nodo del rapporto tra diritti economici ed esercizio delle funzioni pubbliche proprie di Bankitalia attraversa, caricandosi di incertezze e di contraddizioni, l’intero intervento del Governatore, quasi ombra di Banquo. Non c’è da meravigliarsene, ove si consideri che il metodo di valutazione prescelto dagli esperti nominati dalla Banca (c.d. Dividend discount model) è stato criticato dalla Bce nel parere al quale sopra si è fatto riferimento: “La Bce – vi si legge – ritiene che una valutazione così a lungo termine, in cui sono formulate supposizioni in merito ai futuri dividendi nell’arco di un periodo superiore a 20 anni, implichi l’utilizzo di dati congetturali in ordine alla quantificazione dei parametri chiave. Tuttavia sarebbero auspicabili ulteriori dettagli sui presupposti quantitativi”.

Il vero è che, con ogni probabilità, la stessa Bankitalia e gli stessi esperti hanno avvertito la difficoltà di tradurre in partecipazioni private le componenti del capitale dell’Istituto centrale, cioè di tradurre i risultati finanziari dell’esercizio di pubbliche funzioni (ossia la componente prevalente, come ha precisato lo stesso Visco, dell’attività di Via Nazionale) in reddito di impresa: di qui la puntualizzazione che le quote (in mano privata) non sono assimilabili a obbligazioni emesse dalla Banca (alle quali finiscono invece per somigliare molto da vicino), conservando la natura di reddito da capitale di rischio. Sennonché, nell’illustrare la metodologia adottata per la rivalutazione, il Governatore si trova poi ad affermare che il tasso utilizzato per scontare i dividendi futuri non può corrispondere a quello che si utilizza per una normale società privata.

La conclusione, sul punto, espone paradigmaticamente le incoerenze dell’operazione: mentre si “celebra” la estromissione, dalla voce dei dividendi, della parte corrispondente alle riserve, si attesta che, ai fini della rivalutazione, “si è preso pertanto a riferimento il valore dei dividendi supplementari [quelli cioè derivanti dalle riserve] che, in base all’attuale disciplina statutaria, avrebbero potuto essere trasferiti ai partecipanti nel corso degli anni e che invece sono stati accantonati tra le riserve della Banca d’Italia”, non solo, quindi, mantenendo il livello attuale di redditività, ma ulteriormente garantendolo, in quanto ormai legato al capitale.

Né più rassicurante si presenta il profilo della incidenza del d.l. n. 133/2013 sull’esercizio delle funzioni di vigilanza, non foss’altro perché – come si è avuto occasione di rilevare – l’organizzazione dell’Istituto è rimessa alla competenza del Consiglio Superiore: fondatamente, quindi, gli istituti di credito che non siano quotisti di Bankitalia potrebbero lamentare lo strutturale conflitto di interessi determinato dalla presenza maggioritaria, nel capitale dell’ente deputato alla vigilanza sul sistema bancario, di soggetti appartenenti al medesimo mercato sottoposto a controllo. Ma qui interessa soprattutto mettere in evidenza le considerazioni del Governatore, formulate nel paragrafo del documento presentato alla 6° Commissione permanente del Senato, sotto il titolo “Profili di vigilanza”. È lì che, significativamente, il vertice di Bankitalia avverte l’esigenza di avvertire che, mentre in precedenza – e cioè dall’inizio degli anni ‘90 del secolo scorso sino al d.l. n. 133 – il valore assegnato alle quote dalle banche partecipanti (con oscillazioni tra 0,52 euro e 73.764 euro!) era escluso, per disposizione di Via Nazionale, dal patrimonio di vigilanza, viceversa “La chiarezza sugli aspetti patrimoniali e le nuove regole sulla trasferibilità delle quote che sarebbero introdotte dal decreto legge [recte: dalla legge di conversione, essendo il d.l., alla data dell’audizione (12 dicembre 2013) già vigente] consentirebbero di rimuovere il filtro prudenziale e di includere le partecipazioni nel capitale della Banca d’Italia nel calcolo del capitale delle banche”. Dipenderà, poi – ha aggiunto il Governatore – dal trattamento contabile delle quote (nuovo strumento finanziario ovvero attività finanziarie disponibili per la vendita), alla stregua del Regolamento (UE) n. 575/2013, in vigore dal 1° gennaio 2014, la possibilità di includere le plusvalenze conseguite e non realizzate subito o a partire dal 2015.

Ecco, allora, che la ricerca della ratio della riforma, destinata a non attingere risultati sul versante della organizzazione pubblica, trova invece esito con riferimento agli effetti del d.l. n. 133/2013 sul patrimonio delle banche partecipanti, conseguentemente aggravando, però, le perplessità in ordine al fondamento e alla legittimità costituzionale e comunitaria del provvedimento di urgenza e, ove dovesse sopraggiungere, della legge di conversione (fatta eccezione per il caso che questa dovesse radicalmente mutare il segno della riforma, nel qual caso resterebbe sanzionata negativamente la responsabilità politica del Governo).

Del resto, che quelli appena descritti fossero obiettivi principali del provvedimento si evince dalla loro puntualizzazione nell’art. 6, co. 6, che, nel testo modificato dal Senato, autorizza i partecipanti al capitale, già dall’esercizio in corso, a iscrivere le loro quote “nel comparto delle attività finanziarie detenute per la negoziazione, ai medesimi valori”. Merita, anzi, segnalare che, nel testo approvato dal Governo, erano ancor più evidenti i segni della transizione, resa possibile dal decreto, con vantaggio delle banche, da una situazione di illegittimità a una di legittimazione, addirittura con pretesa di “sanatoria” (“A partire dall’esercizio in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto, i partecipanti al capitale della Banca d’Italia trasferiscono le quote, ove già non incluse, nel comparto delle attività finanziarie detenute per la negoziazione, ai medesimi valori di iscrizione del comparto di provenienza”).

Dalle battute finali del documento del Governatore – dedicate alle funzioni della Banca – emerge con forza l’esigenza che la riforma dell’istituto vada in senso esattamente opposto rispetto al d.l. n. 133/2013, riportandolo, senza residui, nell’area del diritto pubblico, anche allo scopo di evitare che, in ragione del legame istituzionale sussistente tra Bce e Via Nazionale, si consolidi e riceva legittimazione normativa un assetto che costituisca i quotisti di Bankitalia in un centro di potere politico privato, così escludendone lo Stato.

Il lavoro della 6° Commissione permanente del Senato non ha avuto gli esiti che pure il gran numero di emendamenti proposti – alcuni particolarmente utili almeno a evitare gli effetti più preoccupanti del decreto legge (ad esempio, per quanto attiene alle riserve auree, che, conformemente all’opinione espressa da chi scrive, si sarebbero volute qualificare espressamente come beni patrimoniali indisponibili, nonché le molte proposte per l’integrale sottoposizione della Banca d’Italia a un regime strettamente pubblicistico, anche per quanto attiene al capitale, all’organizzazione e ai rapporti con le assemblee rappresentative) – lasciava se non prevedere, certo, però, sperare.

Ci si può ancora augurare che la Camera dei Deputati, impegnata proprio in questi giorni nell’esame del d.d.l. di conversione, voglia arrestare il cammino del decreto legge, rinviando, come avevamo auspicato, scelte di questa portata all’ordinario percorso parlamentare: è difficile, infatti – ma certo non impossibile – che il Presidente della Repubblica, il quale ha già positivamente vagliato i contenuti del provvedimento in sede di sua emanazione e, poi, ancora, quando ha autorizzato il Governo alla presentazione alle Camere del suddetto d.d.l., si determini a rinviare la legge al momento della promulgazione.

 

(2- fine)

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