Ieri un lancio dell’Agenzia Ana delle ore 12:12 ha diffuso la notizia che il Governo, per mezzo del Ministro per i Rapporti con il Parlamento Franceschini, ha posto la questione di fiducia sulla conversione del d.l. n. 133/2013. La votazione si terrà oggi a partire dalle 11:45. L’annuncio ha subito scatenato una vigorosa reazione dell’Onorevole Corsaro, perciò espulso dall’emiciclo. Reazione comprensibile: il termine ultimo per il voto della Camera dei Deputati sarebbe scaduto il 29 gennaio prossimo e, d’altronde, come ognun sa, le Assemblee parlamentari non sono certo obbligate a convertire in legge i provvedimenti d’urgenza del Governo. Al contrario, l’art. 77, co. 2 Cost., dispone che l’adozione di simili provvedimenti impegni la responsabilità (anche) politica del Governo, il quale, per le ipotesi in cui le Camere non approvino il cosiddetto bill of indemnity, sarebbe, a rigor di norma, astretto alle dimissioni.



In un contesto di progressiva diffusione di critiche al d.l. n. 133, spesso puntuali e ampiamente argomentate ed espresse sia nel corso del procedimento di conversione, sia nella pubblicistica quotidiana e periodica, nonché in sede scientifica, questa imposizione, più che posizione, della fiducia conferma la gravità delle implicazioni ordinamentali del disegno di privatizzazione o piuttosto di devoluzione a un pool di banche egemoni delle essenziali funzioni un tempo confidate a Bankitalia quale ente pubblico, corrispondente forse a un disegno di smantellamento dell’Istituto e con esso del suo patrimonio, esposto a dinamiche di mercato, benché nella sua totalità, e con maggior evidenza per quanto attiene alle riserve auree, esso rappresenti una “garanzia reale” della sovranità popolare, sulla cui titolarità e sulla cui gestione, siccome parte, in senso lato, del domaine de la Nation, sarebbe stato doveroso quanto meno consentire che la rappresentanza potesse esprimersi con i poteri che le competono nel procedimento di cui all’art. 77 Cost.



La scelta dell’Esecutivo inibisce, viceversa, il normale esercizio di tali poteri e sembra così orientata a determinare l’assunzione del decreto legge nel plesso programmatico che unisce la (per altri versi ben poco coesa) maggioranza di governo, nonostante le incongruenze e le contraddizioni (anche rispetto a principi e disposti costituzionali) e senza concedere alla controparte del rapporto fiduciario alcun serio margine di negoziazione. Né può ritenersi che ciò si debba all’urgenza – posto che vi fosse – di giungere alla stabilizzazione delle altre norme contenute nel provvedimento e segnatamente di quelle concernenti l’Imu: a tal fine il Governo avrebbe già potuto separare le due parti del decreto, tra loro tanto eterogenee da aver dato luogo, in sede parlamentare, a fondate eccezioni di illegittimità costituzionale.



Siamo, insomma, di fronte a un ulteriore segno di forzatura dei limiti delle competenze: l’Esecutivo, visto l’art. 15, co. 2, lett. b), l. n. 400/1988, non avrebbe neppure potuto adottare un provvedimento d’urgenza che, riguardando assi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano – anche nei suoi rapporti con l’Unione europea, dalla quale, come si è avuto modo di rammentare su queste pagine, sono stati formulati, per il tramite della Bce, appunti e rilievi che avrebbero viceversa dovuto indurre, se versassimo in ipotesi di fisiologica dinamica ordinamentale, a migliore e più approfondita riflessione – rientrano nella riserva di cui all’art. 72, co. 4, Cost.

È prevedibile che, per non aprire una crisi di governo, la Camera voti a favore della conversione. Ma ciò rischia di causare una doppia frattura: nel rapporto fiduciario tra Parlamento e Governo, che rimarrebbe comunque scosso dall’ennesima richiesta straordinaria del secondo al primo, e in quello che corre tra collettività e istituzioni, perché la partita che si sta giocando mette a repentaglio, probabilmente in modo irreversibile, uno strumento essenziale all’indipendenza degli italiani.

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