Sergio Marchionne vuole pagare le tasse a Londra, almeno secondo quanto ha riportato Bloomberg. Secondo l’agenzia americana, Fiat-Chrysler avrà sede fiscale a Londra e sede legale ad Amsterdam; inoltre, per la quotazione in Borsa la scelta ricadrebbe su New York come piazza principale e, come secondaria, resterebbe Milano. In Italia la notizia al momento trova timidi riscontri, anche perché in vista del 29 gennaio, quando lo stesso Marchionne renderà edotti anche i sindacati circa il futuro di Fiat-Chrysler, tutti hanno la bocca cucita. Il massimo che trapela, negli ambienti vicini ai vertici del Lingotto, è “Londra è una soluzione plausibile”.



Questi potrebbero essere i primi effetti concreti della fusione con Chrysler, da chi scrive anche piuttosto previsti, come del resto già avvenuto con Cnh Industrial e come lo stesso Marchionne aveva già ipotizzato. Naturalmente, rispetto agli utili che il gruppo produrrà nel mondo, Fiat-Chrysler pagherà le tasse a Londra, se la scelta del management del Lingotto confermerà le indiscrezioni. Certamente, oltre che da un punto di vista dell’immagine internazionale, anche da un punto di vista fiscale l’Italia perderà qualche entrata… tuttavia, per quelli che saranno gli utili degli stabilimenti italiani (ognuno di loro è azienda a sé), Fiat-Chrysler pagherà le tasse allo Stato italiano.



Perché Londra è soluzione molto plausibile? La scelta è plausibile per la sua funzionalità. In primis, Fiat-Chrysler segue le orme di Cnh Industrial, in secundis, Londra è molto prestigiosa; inoltre, questo può essere il modo per spingere il prodotto in uno dei mercati europei dell’auto più importanti; e in ultimo, Londra è un buon compromesso con gli americani. Per quanto riguarda il mercato dell’auto, nel Regno Unito (dove si vendono 2,26 milioni di autovetture, +10,8% nel 2013) non c’è un “costruttore nazionale” come la Fiat in Italia, perché i marchi inglesi o sono stati venduti all’estero o sono in parte posseduti da compagnie estere. Si è scelto di creare le condizioni per garantire e attrarre gli investimenti e consentire in questo modo l’ingresso di case automobilistiche di altre nazionalità.



È stata Margaret Thatcher negli anni ’80 a privatizzare Jaguar, Rover, British Leyland, Rolls-Royce e National Bus Company. E soprattutto ad aprire le porte ai giapponesi di Nissan, Honda e Toyota, che avviarono i primi stabilimenti europei in Inghilterra. Da questa svolta iniziò quell’invasione di cui gli inglesi beneficiano tuttora: le società straniere che usano la Gran Bretagna come trampolino sono decine. L’auto è il settore più importante dell’export britannico (l’11% del totale) con un giro d’affari da 65 miliardi di euro e 720 mila addetti.

Ciò detto, a noi non rimane che sperare che Fiat-Chrysler mantenga le sue promesse d’investimento in Italia: questo implicherebbe certamente una crescita della produzione, probabilmente anche delle vendite. Ma produrre e vendere sono due cose diverse, e Fiat-Chrysler per crescere nella distribuzione, soprattutto oltralpe, ha bisogno di politiche per l’export. È chiaro che se la produzione sarà rilanciata, come Marchionne dice, nel giro di qualche anno ci sarà la possibilità di mandare a regime il personale che al momento è molto sottoimpiegato negli stabilimenti. Ma l’operazione è molto complessa.

Il destino degli impianti è argomento di cui si discute poco e male, perché i numeri che circolano sono sempre approssimativi. C’è una situazione di massiccio impiego della cassa integrazione per quanto riguarda Mirafiori, Melfi e Cassino: a Melfi 5.500 operai lavorano la metà delle ore, a Mirafiori sono 4.300 a lavorare 3 giorni al mese, a Cassino 3.860 sono impiegati 6/7 giorni su 30, e a Pomigliano 1.200 sono in cassa integrazione a rotazione.

È vero che con il rilancio della produzione – e di Alfa Romeo in particolare – si presuppone di riassorbire il personale e saturare gli stabilimenti, ma non si tratta di una conseguenza immediata e, soprattutto, bisognerà capire realmente come si comporterà il mercato. Non è scontato, infatti, che ciò che viene prodotto sarà poi venduto. Ecco perché, quegli incentivi per l’export che Monti aveva promesso nel 2012 e che non sono mai arrivati, oggi si rivelerebbero molto utili, visto che il rilancio della produzione è molto orientato al mercato globale. Ma, è cosa nota, i tempi del mercato e quelli del governo non vanno di pari passo… nemmeno quelli di Fiat, che per il momento se ne va a Londra.

 

In collaborazione con www.think-in.it