L’Europa era totalmente impreparata quando nel 2007-2008 esplose la crisi bancaria e finanziaria americana. Gli iniziali vantaggi dell’euro, già assai poco redistributivi a livello sociale, svanirono in pochissimo tempo. I governi degli Stati membri dell’eurozona e le istituzioni europee erano in uno stato di paralisi comatosa. Fu in questo contesto che la Germania ha lanciato la sua “offensiva” europea, senza incontrare resistenze sostanziali da parte angloamericana. Su iniziativa tedesca, tra il 2010 e il 2012 sono stati firmati e ratificati una serie di Trattati internazionali (di rilevanza europea) che hanno ristrutturato profondamente l’intero sistema monetario, bancario, fiscale e finanziario europeo. Sull’onda dell’emergenza – la regia mediatica sugli spread ne è stata ampiamente complice – i paesi più deboli dell’eurozona, i così detti Piigs, sono stati costretti a firmare i nuovi Trattati e ad accettare misure draconiane di cessione di sovranità in materia di politica fiscale, economica, bancaria e finanziaria a organismi tecnici sovranazionali che non rispondono ad alcun controllo da parte delle istituzioni europee o degli organi nazionali di rappresentanza popolare.



Sono riconoscibili due strategie che hanno guidato le scelte dei governi europei: la prima è consistita nel camuffare la crisi, che essendo nata a causa dei debiti delle banche è stata invece presentata come se fosse dovuta al debito eccessivo degli Stati provocato dall’eccessiva spesa sociale (Sic!); la seconda, che ha rafforzato la prima, ha instaurato un sistema di autoritarismo emergenziale. Mentre le misure da intraprendere per sopravvivere sono state concepite da ristretti organi centrali inter-governativi, i parlamenti obbediscono, com’è costretto a fare un organo politico in una situazione di emergenza. È evidente, quindi, che sono i governi a comandare imponendo che poche dozzine di persone svuotassero rapidamente il già debole sistema democratico europeo. La situazione attuale richiama la trama del film “Back to the future”: infatti, le strategie messe in atto oggi dai governi europei sembrano rinviare al disegno ideologico che nel 1971 l’avvocato americano e poi giudice della Corte Suprema americana, Lewis Powell, scrisse nel noto Powell Memorandum



Tra questi strumenti sovranazionali è il Fiscal compact, formalmente il Trattato internazionale sulla stabilità, coordinamento e governance nell’Unione economica e monetaria – firmato il 2 marzo 2012 e in vigore dal 2015 – che ha reso cogente il patto europeo di pareggio del bilancio nel rispetto delle regole sul deficit generale di bilancio da tenere sotto il 3% e del deficit strutturale sotto lo 0,5-1% del Pil all’anno, l’obbligo di riduzione del debito pubblico in 20 anni per portarlo sotto il 60% del Pil, e infine alcune misure automatiche di correzione delle deviazioni nazionali in materia bilancio e debito. Il Trattato, che integra e rafforza le decisioni del regolamento 1467/97 e di altri strumenti successivi, prevede la sua attuazione nazionale attraverso “una legge attuativa” (implementation law) e demanda alla Corte europea di Giustizia di verificarne l’attuazione e il rispetto, comminando le eventuali sanzioni pari allo 0,1% del Pil.



Mentre la Francia ha attuato il Trattato attraverso una legge ordinaria “rinforzata”, l’Italia ha scelto di attuare il pareggio di bilancio con modifica costituzionale (art. 81) e le altre previsioni con legge ordinaria. Gli altri paesi membri che hanno attuato il Trattato attraverso una modifica costituzionale per le previsioni in materia di pareggio di bilancio sono Slovacchia, Slovenia e Spagna. La Germania, che ha un sistema giuridico di “costituzionalizzazione” del diritto europeo e internazionale che garantisce la prevalenza del Parlamento tedesco (Bundestag) sulle decisioni del governo in materia europea e internazionale, ha ratificato il Trattato. Tuttavia, tale ratifica non ha alterato il sistema tedesco che già conteneva misure più stringenti sui temi oggetto del Trattato.

Appare evidente che il Fiscal compact s’inserisce in quel processo iniziato nel 1997 che tende a eludere la sovranità democratica dei parlamenti. L’Unione monetaria, come abbiamo visto, vive di meccanismi sovraordinati agli Stati e si realizza attraverso metodi di attuazione robotizzati, gestiti in modo tecnico supra- e inter-governativo. La Commissione europea, guardiana dei Trattati e pietra miliare del “metodo comunitario”, è stata anch’essa marginalizzata, poiché molte delle sue competenze in queste materie sono diventate oggetto di meccanismi giuridici automatici ed esterni ai Trattati europei. Infine, come i parlamenti nazionali, anche il Parlamento europeo è stato escluso da ogni competenza reale sulle questioni relative alla moneta unica e alle politiche fiscali e monetarie europee.

In questo quadro privo di qualsiasi alternativa, minacciando i governi, nel 2010 è stato approvato, senza resistenze, l’emendamento dell’art. 136 del Tfeu che creava un meccanismo stabile per la difesa dell’euro (European stability mechanism – Esm). Questo emendamento è stato approvato anche dal Parlamento europeo che ricevette la promessa della Commissione, ma non dei governi, di avere “un ruolo centrale” nella gestione dell’Esm. Una volta “europeizzato” il meccanismo, nel 2012 i governi hanno inteso “rafforzarne il funzionamento” attraverso un Trattato inter-governativo – Treaty Establishing the European Stability Mechanism, firmato da 17 Stati dell’eurozona, ma non dal Regno Unito – che ha creato un’organizzazione intergovernativa di diritto pubblico internazionale, basata a Lussemburgo e presieduta dal tedesco Klaus Regling. Il vero Esm non prevede alcun ruolo centrale del Parlamento e attraverso un memorandum d’intesa (MoU) ha inserito cogenti regole di condizionalità, molto stringenti, la cui esecuzione è demandata alla così detta Troika, Commissione-Bce-Fmi.

Parafrasando Gramsci, si può dire che la macchina dell’egemonia e del consenso gira a pieno regime in Europa!

 

(2- fine)