Eccoci qui. Ancora dinanzi alla prova dell’interconnessione strettissima delle popolazioni organizzative che operano sui mercati imperfetti degli oligopoli finanziari e alla terribile divisione delle politiche dei prestatori in ultima istanza a livello mondiale, ossia le banche centrali. Sembrava da qualche tempo ch’esse potessero contenere gli tsunami delle ondate speculative, ma in verità nella loro divisione puntellavano soltanto la tremenda ineguaglianza che si manifesta nell’economia mondiale, ossia l’insufficienza dei mercati interni dei paesi emergenti, i cosiddetti Brics.
Dinanzi a tale insufficienza occorre porsi la domanda di quale sia la causa della medesima. Essa va ricondotta alla finanza che ha rivolto la gran massa di valore capitalistico verso la rendita ad altissimo livello di rischio anziché verso il profitto, drenando risorse dai mercati interni, impoverendoli e falsificando la tesi che è nell’esportazione la via alla crescita. Essa è, invece, nell’avanzata polisettoriale, sia con le esportazioni, sia con la creazione della domanda effettiva nazionale, pena la crisi che ha già colpito l’Europa deflattiva, stremata dai divari tra il surplus commerciale tedesco e l’insufficienza delle esportazioni degli altri paesi impoverite dal dissanguamento generato dalle errate politiche poste in essere dalle tecnocrazie incompetenti per contrastare l’indebitamento bancario e sovrano e dalle politiche dell’austerità imposte dalla bilancia commerciale teutonica a tutte le altre nazioni.
I Brics, per l’insufficienza dei mercati interni – oltre a provocare la rivolta della nuove classi medie che si vedono prive di beni di uso collettivo, come i servizi infrastrutturali ed educativi che possono solo essere creati dalla domanda effettiva, dalla sussidiarietà e anche da un forte Stato tecnocratico -, sono stremati dalla necessità di importare a fronte dell’assenza di una forte domanda interna, come invece accade negli Usa. Essi importano quote ingenti del Pil mondiale e ne esportano una percentuale irrisoria: hanno un debito estero enorme, ma ciò nonostante crescono di nuovo perché hanno rimesso in moto la domanda effettiva. Se questa non si rianima, in Brasile in Russia in Sudafrica in Turchia e, naturalmente, in Argentina, ecco che le crisi valutarie da insufficienza di risorse finanziarie per pagare le importazioni fanno saltare l’equilibrio instabile della finanza mondiale, con le banche centrali che, pur demiurgiche in questi ultimi anni, a questi grandi movimenti di capitali che si ritirano da codesti paesi non possono opporsi. Ecco le nuove crisi.
È l’ora della verità, cari economisti sostenitori del modello “Solo le esportazioni possono salvarci e non ce ne importa nulla se la disoccupazione aumenta!”. Invece, le grandi entità finanziarie mondiali si sono via via ritratte dai paesi in via di sviluppo, ora chiamati paesi emergenti, e si sono nuovamente diretti decisamente verso gli Usa e in parte (e il che pare incredibile!) verso la deflazionaria Europa. Ma le eccedenze di debito estero che dovrebbero finanziarie in forma indefinita le importazioni di paesi distrutti da politiche regressive sui mercati interni e distrutte sul piano della domanda interne, sono esplose. È ora saltato l’anello più debole: l’Argentina.
Le cause? Il peso argentino (valuta non convertibile e che era l’unica ad aver circolazione legale nella nazione) nell’ultimo mese ha perso il 17% rispetto al dollaro, toccando quota 8,24. Per il peso si tratta del crollo più pesante degli ultimi 12 anni, cioè dai tempi del cosiddetto “corralito” (quando non si poteva, nel 2001, ritirare denaro locale dalle banche se non in una quantità irrisoria e i militari proteggevano queste ultime dagli assalti della folla). Del corallito ora riemerge lo spettro.
Per la Kirchner è giunta l’ora della vergogna: nel 2002 l’Argentina si era faticosamente rimessa in carreggiata grazie al boom del prezzo delle commodities, ma la sua politica dissennata ha rovinato tutto. Una politica troppo redistributiva e “parassitaria”. La direzione peronista ha fatto una serie di errori uno dopo l’altro: innanzitutto troppo peronismo nello sfruttare il boom con il rent seeking, ossia con il monopolismo statale, in contrapposizione alla libera concorrenza necessaria. L’Argentina ha sussidiato dalla benzina ai generi alimentari. E quel poco che ha fatto di liberista, ossia le privatizzazioni, le ha fatte in maniera sciagurata, alla Prodi: non per creare grandi gruppi ma per vendere gli assets agli amici, come nel caso dell’Ilva e della Sme. Per non parlare poi della limitazione della circolazione del denaro e della vendita delle riserve della banca centrale in dollari. Con questi ingredienti è inevitabile il crollo della moneta.
La Kirchner, insomma, ha paralizzato il sistema economico, non creando domanda effettiva secondo il principio keynesiano e allontanando gli investimenti stranieri, come nel caso del mercato della carne. L’Argentina ha avuto storicamente da sempre la migliore qualità, ma a causa dei dazi sulle esportazioni è stata superata non solo dal Brasile ma anche da Uruguay e Paraguay, paesi di grande tradizione ma molto più piccoli. Per non parlare poi della gestione di alcuni affari internazionali, come quello legato a Repsol, e del progressivo allontanamento anche dal Fmi a causa dei famosi bond, “questione ancora irrisolta”. Tutti elementi che hanno spaventato non poco gli investitori.
Adesso il risultato è un’inflazione effettiva tra il 26% e il 30%, nonostante il governo parli del 10% (hanno licenziato molti tecnici dell’Istat argentino per mettere le stime in mano a dei funzionari, ma non possono più mentire), e degli indici di povertà e di disoccupazione doppi rispetto a quelli italiani. Come se ne esce? Innanzitutto mandando via la Kirchner: il peronismo ha fallito e ci vuole ora un’alleanza tra liberali e socialisti per rilanciare il Paese.
Una persona intelligente come il liberale di origini italiane Mauricio Macri, governatore di Buenos Aires al secondo mandato (e per 12 anni, dal 1995 al 2007, presidente del club calcistico Boca Juniors) sarebbe il candidato ideale unitamente all’ex governatore di Santa Fe Hermes Binner.
E bisogna ricostruire la crescita iniziando con la ripresa dell’economia agricola e zootecnica abolendo le tasse sulle esportazioni di carne, di soia e di grano e poi valorizzando le immense riserve energetiche della nazione. Pensiamo alla Patagonia: l’unica area dell’Argentina dove la situazione è florida, grazie alla scoperta di giacimenti di shale gas che possono diventare una grande opportunità. Ma bisogna assolutamente detassare gli investimenti. E la carne deve tornare a essere prodotta secondo i migliori standard (che l’Argentina possiede grazie a tecnologie e capacità personali elevatissime) e commercializzata in tutto il mondo, non puntando sulla soia che ha un mercato meno interessante.
Insomma, ancora la domanda effettiva e quindi gli investimenti, of course, come diceva il vecchio Lord Keynes.