Forse, bombardati come siamo dalla propaganda europeista della ripresa in atto, ci siamo scordati che la Grecia, nei fatti, viene classificata sui mercati come economia emergente e non più sviluppata. Già, lo scorso novembre Atene e soprattutto i titoli azionari sulla sua Borsa sono stati spostati nell’indice MSCI Emerging Markets, primo Paese a subire un downgrade simile. Bene, da allora le cose ad Atene vanno talmente bene che durante la due giorni di attacco speculativo su Argentina e Turchia proprio le obbligazioni sovrane elleniche sono quelle che hanno pagato il prezzo più alto. Lunedì, addirittura, mentre la Borsa perdeva circa l’1% in scia con le altre piazze europee a causa dei deludenti dati macro cinesi delle tensioni innescate dalle decisioni che sarà chiamata a prendere stasera la Fed sul cosiddetto “taper”, il decennale greco pagava un rendimento dell’8,75%, mentre il pari durata portoghese scontava un calo dello yield dell’1,27% a quota 5,033%.



Per Nicholas Spiro della Spiro Sovereign Strategy, nulla che debba sorprendere: «Il fallout – le ricadute – delle svendite sui mercati emergenti sta colpendo i mercati più deboli e meno liquidi della periferia dell’eurozona, così come quelli con collegamenti e interconnesioni economiche con i mercati emergenti». Ancora più netta l’analisi di Nick Stamenkovic, capo del dipartimento macro-economico alla Ria Capital Markets: «I bond sovrani greci sono stati presi in mezzo dal fuoco incrociato della svendita su larga scala dei mercati di rischio, mentre i Bund e altri bond sovrani hanno beneficiato di questi rinnovati flussi di capitale verso beni rifugio. L’illiquidità dei bond governativi greci, poi, è un altro fattore negativo, visto che in questo momento gli investitori fuggono da assets illiquidi a causa della crescente incertezza e temendo un forte calo dei prezzi».



E mentre lunedì il ministro delle Finanze dell’eurozona, Jeroen Dijsselbloem, ha rassicurato tutti dalle colonne del britannico The Guardian riguardo al fatto che «è improbabile che le difficoltà nei mercati emergenti possano contagiare e colpire l’area euro», è ancora Nicholas Spiro a togliere il velo di ipocrisia all’Ue: «Lo status di mercato emergente per la Grecia rappresenta una debolezza in un ambiente come quello attuale, ma al di là di questo i sottostanti e reali problemi strutturali e fiscali del Paese persisteranno nonostante quello che sarà il sentimento di mercato verso i mercati emergenti». E chi del sentimento dei mercati se ne disinteressa, sono i cittadini i greci. I quali, al netto del loro indice di Borsa che nel 2013 è stato il più performante dell’area euro, hanno visto il reddito disponibile per nucleo familiare scendere di 2,6 miliardi di euro, qualcosa come l’8%, nel terzo trimestre del 2013 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Sono dati di Elstat, l’Istat greca, la quale attribuisce il calo – con un totale di reddito disponibile sceso a 30,4 miliardi di euro – a una diminuzione del 9,9% anno su anno delle compensazioni per i lavoratori e dell’8,2% dei benefit sociali, ovvero il welfare. Ma la Grecia è salva e con lei tutta l’Europa!



Oddio, proprio salva salva magari no, perché al netto delle tresche amorose e dell’imminente divorzio, a riempire di incubi le notti di Francois Hollande c’è questo grafico e stiamo parlando della seconda economia europea: come potete vedere la Francia conosce un incremento della disoccupazione da 30 mesi su 32 di fila, con il tasso nazionale che ha raggiunto il massimo di tutti i tempi e il numero dei senza lavoro a quota 3,303 milioni.

E pensate una cosa, tanto per farvi capire quale farsa sia la ripresa che ci stanno spacciando come metadone sociale: il debito francese a 10 anni viene trattato sui mercati a 36 punti base meno del pari scadenza statunitense! Ma tant’è, la vita è bella perché è varia. Ma si sa, la “polizza Renzi” sta garantendo all’Italia relativa tranquillità sui mercati, mentre la contabilità creativa spagnola di cui abbiamo parlato ieri viene presa per buona fino a quando farà comodo. Ecco quindi che ieri mattina il Tesoro italiano ha collocato 2,5 miliardi di Ctz 2015 all’1,031%, in calo rispetto all’1,346% dell’asta del 27 dicembre scorso e sui minimi dall’introduzione dell’euro, con domanda pari a 1,78 volte l’offerta. Piazzati anche 1,25 miliardi di Btpei settembre 2018 all’1,39%, in forte ribasso dal 2,30% del 27 ottobre scorso e con una domanda pari a 1,88 volte l’offerta. Poco prima, la Spagna aveva collocato 3,1 miliardi di titoli a 3 e 9 mesi sempre con tassi in calo (a 0,343% sul tre mesi da 0,631%, a 0,655% sul 9 mesi da 0,841%). Evviva, siamo dei fenomeni noi e i cugini iberici!

Non la pensa così, invece, Standard & Poor’s che sempre ieri è tornata a minacciare l’Italia. L’agenzia potrebbe infatti abbassare il rating del Bel Paese, attualmente a BBB, se concluderà che il governo Letta non è in grado di attuare politiche che aiutino a ripristinare la crescita e a evitare che gli indicatori del debito pubblico si deteriorino oltre le aspettative attuali. Un declassamento, ha spiegato l’agenzia di rating, potrebbe anche dipendere da ritardi nell’affrontare alcune delle rigidità nei mercati del lavoro, dei servizi e dei prodotti, che stanno frenando la crescita. Se, invece, l’esecutivo riuscirà ad applicare le riforme strutturali, l’outlook dell’Italia potrebbe passare da negativo a stabile.

Per l’agenzia di rating, il Pil dell’Italia crescerà solo dello 0,5% tra il 2014 e il 2016 e a limitare la crescita sono la debole domanda di lavoro, le strette condizioni del credito e la situazione deflazionistica. Anche nel 2016, il prodotto dell’economia italiana resterà quasi del 7% al di sotto dei livelli del 2007. In compenso, alla fine di quest’anno, stima ancora S&P’s, il debito pubblico italiano salirà al 134% del Pil ed è quindi essenziale che il governo attui riforme strutturali che stimolino la crescita: «Dal nostro punto di vista, quest’anno decisioni politiche chiave potrebbero avere un rilevante impatto sulla performance economica e quindi sulle finanze pubbliche». E ancora: «Se l’attuale coalizione di governo dovesse attuare riforme strutturali a favore della crescita, soprattutto nel mercato del lavoro, il potenziale di crescita dell’Italia potrebbe migliorare».

Insomma, ci dettano l’agenda, ma di fatto stanno seguendo le indicazioni dei mercati: serve Renzi a Palazzo Chigi e serve subito, come d’altronde ha chiaramente fatto intendere ieri il nuovo consigliere politico di Silvio Berlusconi, Giovanni Toti, parlando di un possibile “governo di scopo” guidato dal sindaco di Firenze. È tutto già scritto, il buon Enrico Letta si metta l’animo in pace: se non ci fosse un piano, una regia, con i dati macro enumerati chirurgicamente da Standard&Poor’s col piffero che si piazzano i titoli di Stato ai valori di ieri mattina e lo spread resta a quota 220!

Il perché è noto, ormai penso abbiate la nausea per quante volte l’ho ripetuto: l’incesto tra titoli di Stato e sistema bancario, lo stigma delle aste Ltro della Bce. E non pensiate che, stante i differenziali che si sono stabilizzati e le aste che vanno bene, il trend di acquisti delle banche si sia fermato. Anzi, la quota di bond sovrani detenuti dalle banche dei paesi acquirenti è aumentata e molto negli ultimi mesi, tanto che pesa per più della metà dell’aumento netto di emissioni di debito in alcuni paesi. Quali? I campioni delle aste, ovvero noi e la Spagna, dove i bond sovrani ormai sono quasi al 10% degli assets totali delle banche, come dimostrano questi due grafici.

 

 

E se dovesse accadere qualcosa di inaspettato, tipo la Catalogna che decide attraverso il referendum di secedere, o la rinegoziazione dei programmi di aiuto in Grecia e Portogallo o il downgrade del debito italiano? Pensate che non ci sia gente, quella piena di carta, a cui questi eventi non possano fare comodo, al momento giusto? E, soprattutto, pensate non siano in grado di farli accadere? Cosa accadrebbe alle banche così strapiene di debito pubblico? Verrebbe minata la loro stessa solvibilità e verrebbero disintegrate sui mercati: ricordate cosa ha detto Mario Draghi nella sua intervista dello scorso fine settimana? Le banche in crisi andranno chiuse. E cosa ha detto quasi in contemporanea a Davos il 24 gennaio scorso il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco? «Gli stress test della Bce potrebbero portare ad alcune fusioni fra le banche italiane», aggiungendo che il suo istituto non intende «disegnare la mappa delle aggregazioni o decidere come dovrebbe muoversi il mercato. La nostra principale preoccupazione è quella che le banche restino sicure e prudenti e, in secondo luogo che, nel fare questo, la governance delle banche migliori. Questa potrebbe diventare “la svolta a U” di cui l’Italia ha bisogno».

L’Italia? Oppure i poteri che stanno costruendo un’Europa modellata sui loro interessi finanziari? Gli stessi che stanno già pensando, una volta tramutato il continente in un’enorme colonia e fatto shopping di banche, di utilizzare le regole di Basilea III per mettere un tetto massimo di detenzioni di bond sovrani del Paese di appartenenza per gli istituti di credito, rimessi a nuovo a costo di saldo grazie a fallimenti e fusioni e ripuliti in questo modo dal rischioso stigma delle Ltro. Non fatevi fregare, è già tutto scritto, c’è un filo che collega la Grecia all’Italia e alla Spagna, è tutto collegato, tutto frutto di un disegno. Lo stesso che vede alcune banche popolari, le stesse che dicono no alla volontà proprio di Bankitalia di cambiare la loro governance (ovvero, il voto capitario che le rende differenti dalle grandi banche), finire sotto enorme stress del mercato a causa delle necessità di aumenti di capitale che stranamente stanno spuntando come funghi, alimentate dai soliti rumors e dalla solita stampa compiacente ai grandi gruppi di potere.

C’è modo e modo di ottenere le cose, ma chi di dovere le ottiene sempre. Il mercato è questo. E la politica ne è sussiegosa e ruffiana ancella. Povera Italia e povera Europa, che destino infame vi attende.