Il d.l. n. 133/2013 è stato convertito, nonostante la vigorosa opposizione di una parte dell’Assemblea, ridotta al silenzio mediante il ricorso alla cosiddetta ghigliottina – sinora mai utilizzata alla Camera dei Deputati – che consiste nel potere del Presidente dell’Assemblea di sottoporre il provvedimento al voto finale, allorché stiano per scadere i sessanta giorni previsti dall’art. 77 Cost. per “tradurre” il decreto d’urgenza in legge: il ricorso a tale strumento era stato già minacciato dalla Presidente Boldrini il 28 gennaio, ma, in un sussulto di orgoglio, la conferenza dei Capigruppo aveva stabilito che non se ne dovesse fare uso.



L’ulteriore tranche della vicenda merita di essere subito commentata, perché sono emersi ulteriori “indizi” che univocamente inducono a ritenere che su un tema così grave e così gravido di conseguenze ci si sia mossi al limite massimo di elasticità delle istituzioni costituzionali. Viene in primo luogo in rilievo la ragione determinante della situazione di “caos”: il Governo aveva opposto un secco e sdegnoso rifiuto alla proposta (definita, per bocca del Ministro Franceschini, “impraticabile”), avanzata da alcuni esponenti politici (peraltro riprendendo quanto era emerso già in sede di esame del d.d.l. al Senato, ossia all’inizio di dicembre dell’anno scorso, allorché ci sarebbe stato tutto il tempo per provvedervi!), di scorporare, per così dire, la parte del decreto legge che concerne Bankitalia, da quella che attiene invece all’Imu.



Ora, chiunque legga il testo normativo si rende perfettamente conto che tra i due oggetti della disciplina non v’è alcun legame e che, anzi, essi sono del tutto irrelati: tanto ciò è vero che, come si è avuto modo di segnalare proprio su queste pagine, tale profilo aveva dato luogo a puntuali pregiudiziali di costituzionalità, in riferimento all’art. 77 Cost. e all’art. 15 (in particolare, in questo caso, al co. 3) l. n. 400/1988, che del primo rappresenta, a tutt’oggi, attuazione in via legislativa. Il diniego dell’Esecutivo non aveva quindi alcun fondamento logico-normativo e ricadeva tutto e per intero nella “ragion politica”, ove ha trovato, ovviamente, terreno fertile, per il timore, evocato anche dalla Presidente della Camera dei Deputati, che la mancata conversione del provvedimento causasse un aggravio di spesa alla collettività.



Cedendo al “ricatto”, però, il Parlamento – foss’anche in nome della difesa delle tasche degli italiani – ha assunto su di sé la responsabilità politica di una scelta che avrebbe potuto assumere vesti non così “manichee”, dal momento che si sarebbe ben potuto procedere, ovviamente in entrambe le Camere, alla conversione solo parziale del d.l. n. 133, preservando le disposizioni relative all’Imu ed espungendo, invece, quelle attinenti alla Banca d’Italia.

Per altro aspetto, merita di essere segnalato il paradosso delle critiche rivolte ai deputati che si sono opposti alla conversione con tutti gli strumenti che l’ordinamento appresta: non soltanto il Parlamento, conforme all’etimo, è il luogo della discussione e della dialettica – che sono modi precipui di esercizio delle sue funzioni – ma è legittimo diritto dei rappresentanti, soprattutto quando vi sia un termine di decadenza, agire affinché il termine medesimo spiri senza che si giunga alla deliberazione contrastata.

Un ulteriore rilievo: lo scopo ultimo del d.l. n. 133/2013 e, quindi, quello dell’insistenza per la sua approvazione sono forse rivelati, meglio di ogni altro degli indizi sin qui passati in rassegna, da quello costituito dalla bocciatura, il 28 gennaio, dell’o.d.g. presentato dal partito Fratelli d’Italia e motivatamente inteso a impegnare il Governo “a valutare la tempestiva adozione di un atto normativo che ribadisca, in maniera esplicita, che le riserve auree sono di proprietà dello Stato italiano e non della Banca d’Italia, a prescindere dall’assetto statutario di quest’ultima; ad adottare le iniziative opportune affinché le riserve auree eventualmente ancora detenute all’estero siano fatte rientrare nel territorio nazionale, entro il termine massimo di dodici mesi dall’entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto-legge”.

L’effetto probabilmente più disastroso del provvedimento in questione è infatti – come si è avuto occasione più volte di segnalare – la formazione di un titolo giustificativo (ancorché precario e comunque di dubbia legittimità costituzionale) alla disposizione, da parte dei quotisti, del cespite più rilevante che Bankitalia – come si legge espressamente nell’ultima Relazione del Governatore – si arroga il diritto di annettere iure dominii (si parla infatti di “proprietà”), cioè le riserve auree.

Il potere dispositivo di tali riserve si potrebbe esercitare, tra l’altro, mediante la cessione delle quote di partecipazione o, indirettamente, mediante la negoziazione delle azioni dei partecipanti al capitale dell’Istituto, assicurandosi così un doppio circuito di immissione nel mercato del valore dell’oro riservato (nonché delle valute assimilate) mediante i titoli direttamente o indirettamente rappresentativi.

A confutazione, poi, di un’illazione circolata anche sulla stampa quotidiana, secondo cui la mancata conversione del d.l. avrebbe comportato, per quanto qui rileva, il venir meno di asserite misure restrittive della circolazione delle quote a garanzia dell’italianità, è appena il caso di osservare, innanzitutto, che nella prima stesura del decreto l’italianità era stata rimossa come inutile barriera; e, poi, che, al contrario, la mancata conversione avrebbe riportato in vigore l’art. 20 R.D. n. 375/1936 e l’art. 19, co. 10, l. n. 262/2005 – abrogati proprio dal d.l. n. 133/2013 – obbligando così gli attuali quotisti che non siano soggetti pubblici a restituire allo Stato le quote da loro illegittimamente detenute. Perché – bisogna ricordarlo – la legge del 2005 poneva rimedio alla violazione dell’art. 20 R.D. cit., perpetrata attraverso la permanenza nell’area dei quotisti delle ex banche di interesse nazionale e delle ex casse di risparmio, dopo la loro privatizzazione.

Quanto infine alla evocazione, da parte del Ministro Saccomanni, dei rapporti con Bruxelles e con la Bce, si rileva che nessuna disposizione europea astringe alcuno Stato membro alla riforma dei rispettivi Istituti di emissione e che, al contrario, la Banca di Francoforte, nell’esprimersi sul testo del decreto, aveva formulato più di un rilievo, anche a seguito del quale – e pur questo si è già segnalato – sarebbe stato necessario o sommamente opportuno affidare la sorte del progetto normativo alle ordinarie vie della legislazione parlamentare.

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