Una reazione inammissibile e inaudita: il 29 gennaio, mentre alla Camera dei Deputati era in corso l’aspro e nondimeno legittimo dibattito sulla conversione dello sciagurato d.l. n. 133/2013, il ministero dell’Economia, invece di esprimersi, come gli compete, in Aula, ha preferito diffondere il comunicato n. 27, nell’indebito tentativo – corredato ancora una volta di assunti del tutto erronei e caratterizzato da un tono stizzito e irridente – di rintuzzare le penetranti critiche rivolte da vari parlamentari nei riguardi di quella parte del provvedimento che concerne Bankitalia.



Vi si legge, innanzitutto, che «in merito alle nuove regole relative alla partecipazione al capitale della Banca d’Italia, nessun “regalo” è stato fatto alle banche, poiché la rivalutazione del capitale e una più equilibrata ripartizione delle quote di partecipazione alla Banca d’Italia non comportano alcun onere per lo Stato». Vien da chiedersi come il Ministro Saccomanni intenda il concetto di depauperamento e se, a suo avviso, ne sia una manifestazione il caso di una persona che, traendola dal proprio portafogli, ceda una somma ad altri, senza riceverne alcun corrispettivo. Perché tale, in estrema sintesi – sui vari aspetti dell’operazione ci si è già ampiamente soffermati su queste pagine – è la situazione che si è (per ora definitivamente) determinata in forza dei disposti dell’ormai convertito decreto n. 133.



All’opposto di quanto genericamente protestato dal Dicastero di Via XX Settembre – che, come del resto i suoi rappresentanti, si guarda bene dal concedere un cenno a una qualche specifica norma – la rivalutazione del capitale (che, peraltro, le banche non hanno mai sottoscritto, avendolo [illegittimamente] acquisito in esito alla privatizzazione delle banche di interesse nazionale e delle casse di risparmio – il “vecchio” capitale di 300 milioni di lire italiane era stato costituito dallo Stato, allorché, nel 1936, aveva liquidato i precedenti azionisti privati) è stata effettuata portandovi a incremento le riserve statutarie, ossia il frutto dell’esercizio delle funzioni pubbliche confidate all’Istituto centrale, come del resto hanno più volte ribadito tanto il ministro dell’Economia, quanto il Governatore della Banca d’Italia.



Riesce pertanto difficile, per non dire impossibile, comprendere come possa plausibilmente sostenersi che tale incremento di valore non comporti (recte: non abbia già comportato, dal momento che all’attuazione dei precetti del d.l. in questione si è provveduto già prima dello spirare dello scorso anno) oneri per lo Stato.

Parimenti incredibile è l’altra (non meno apodittica) affermazione, secondo cui anche la (sedicente) più equilibrata ripartizione delle quote di partecipazione al capitale di Bankitalia darebbe luogo a un intervento “a costo zero”: ben diversamente, l’art. 4, co. 6, d.l. n. 133/2013 prevede che l’Istituto, «per favorire il rispetto dei limiti di partecipazione al proprio capitale», possa «acquistare temporaneamente le proprie quote di partecipazione e stipulare contratti aventi ad oggetto le medesime», ovviamente pagandole con le proprie risorse. Previsione di tale “delicatezza” da essere stata affiancata, in sede di conversione, da una clausola che fa obbligo a Via Nazionale di riferire «annualmente alle Camere in merito alle operazioni di partecipazione al proprio capitale in base a quanto stabilito dal presente articolo».

Donde un ulteriore onere per le finanze pubbliche, nonché una violazione del divieto europeo di erogare aiuti di Stato, puntualmente eccepita dalla Bce – ancorché con formulazione “diplomatica” – nel parere (tardivamente) richiesto dal Governo solo qualche giorno prima dell’approvazione del decreto legge.

Non è forse un caso, del resto, se, prima ancora che fosse emanato il provvedimento d’urgenza, alcuni esponenti dei quotisti avevano avanzato pretese affinché, per l’ipotesi in cui si fosse data attuazione – come pure era doveroso! – all’allora vigente art. 19, co. 10, l. n. 262/2005 (che, come più volte si è avuto modo di rammentare, imponeva che le quote detenute dai privati tornassero in capo a enti pubblici), si desse prima corso alla rivalutazione del capitale così da far percepire ai partecipanti un prezzo più alto.

Né può dimenticarsi o passarsi sotto silenzio – come ha invece fatto il Ministero – che un ancor più radicale depauperamento è causato dalla costituzione del titolo di giustificazione (però costituzionalmente illegittimo) alla disposizione, da parte dei quotisti, delle riserve auree, sulle quali, senza alcun fondamento normativo, tantomeno specifico, la Banca d’Italia afferma di avere un diritto dominicale: essi potranno disporne sia, direttamente, mediante la cessione delle proprie partecipazioni – il cui valore, conformemente alle dinamiche di mercato, verrà stabilito tenendo conto anche di tali riserve – sia, indirettamente, tramite la negoziazione delle proprie azioni.

Ma, come ognuno ha potuto constatare, su questo tema – probabilmente il più grave, anche per le conseguenze che discendono dalla immissione nel mercato di beni essenziali alla sovranità popolare e, pertanto, di carattere (come chi scrive ha avuto modo di illustrare) quasi demaniale – si è registrata, da parte del Governo (ma anche della maggioranza parlamentare che in tale frangente lo ha sostenuto) una tanto imbarazzante, quanto ingiustificabile contraddizione, allorché, pur avendo sostenuto, per bocca di un Sottosegretario, che l’appartenenza delle suddette riserve allo Stato non sarebbe stata infirmata dal d.l. n. 133, ha poi espresso parere negativo su un molto pertinente o.d.g. presentato dal partito Fratelli d’Italia – purtroppo respinto – affinché tale affermazione fosse finalmente tradotta in norma.

Il comunicato ministeriale – ripetendo un tema al quale si fa spesso corrivo ricorso nel nostro Paese – adduce, inoltre, che la riforma dell’assetto proprietario della Banca (il testo, con ingenua prudenza, non connota il sostantivo!), risalente al 1936, sarebbe divenuta urgente «in vista dell’entrata in vigore de nuovo sistema unico di supervisione bancaria in ambito europeo».

Ancora una volta non viene indicato neppure un comma di un qualsivoglia atto normativo europeo che possa dare un qualche fondamento a tale asserzione: e ciò perché, in effetti, come si è già avuto modo di dimostrare, non ve ne sono. Tanto ciò è vero che né la Bce riconduce il provvedimento, a essa sottoposto in sede consultiva, all’adempimento di un obbligo comunitario, né gli altri paesi europei si sono affrettati, tantomeno con decreti d’urgenza, a privatizzare i loro Istituti di emissione.

Ma il diavolo, come si dice, sta nei dettagli: merita infatti di essere segnalato che l’Esecutivo, forse perché ormai certo della conversione del provvedimento – che sarebbe infatti sopraggiunta poche ore dopo – ammette infine che, prima dell’emanazione del d.l. n. 133, la disciplina relativa alla partecipazione al capitale di Bankitalia era quella prevista dal R.D. n. 375/1936, che la riservava a soggetti pubblici.

Ciò che equivale a “confessare” che, sino allo stesso momento – diversamente da quanto dichiarato anche dal Governo e persino da esponenti della Banca centrale – la detenzione da parte dei privati era illegittima, benché fosse stata “tollerata” per più di vent’anni.

L’urgenza, allora, era piuttosto quella di porre fine a tale inaudita condizione contra legem che affliggeva l’Istituto: la Costituzione (e l’interesse nazionale) avrebbero preteso che a ciò si ponesse rimedio dando attuazione alla l. n. 262/2005, obbligando, cioè, i privati a restituire le quote allo Stato, e non già con la sanatoria dell’illecito, perfezionata, peraltro, con modalità procedurali che hanno conculcato i sacrosanti diritti delle minoranze parlamentari, le quali, a leggere il comunicato, dovrebbero forse dirsi soddisfatte perché «nel corso dell’esame del provvedimento sono stati approvati emendamenti di iniziativa parlamentare con il parere favorevole del Governo”.

Ma ormai hoc iure utimur.

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