Dunque, come mostra plasticamente e ufficialmente il grafico a fondo pagina, Italia e Spagna sono entrate a far parte del club del 3%, ovvero di quei paesi i cui titoli di Stato decennali prezzano rendimenti nel range del 3%. Sono Stati Uniti al 3,008%, Regno Unito al 3,044, Irlanda al 3,389%, Israele al 3,70%, Spagna al 3,91% e Italia al 3,95%. L’anno scorso lo spread tra Stati Uniti e Spagna era a 350 punti base, oggi meno di 90. In un giorno il nostro spread e quello spagnolo si sono compressi di 18 punti base, quello portoghese addirittura di 30. Sembra l’inizio anno del 2013, ma quelli sono livelli del luglio 2011: cosa sia successo dopo in entrambe i precedenti, è cosa nota. Ma voi sentite di stare meglio? Oppure siamo al punto di prima ma Bce e banche ci illudono comprando bonds come se non ci fosse un domani, facendo fare un figurone al governo Letta, il quale dovrà poi ridare qualcosa in cambio?
Io so una cosa, ovvero che questo risultato non è merito nostro, lo sanno anche al governo, ma di due fattori esterni: si prezza già una nuova asta di liquidità della Bce, un Ltro, ma, soprattutto, qualcosa scricchiola in Germania. Ma partiamo da casa nostra, tanto per smontare con la sola logica da primo anno di economia la panzana dello spread in discesa. La sola e vera decelerazione, che deve farci preoccupare, è infatti quella dell’inflazione italiana nel 2013. Secondo la stima preliminare diffusa ieri dall’Istat, il tasso medio annuo è calato all’1,2% dal +3% registrato nel 2012, toccando i minimi dal 2009. Nel solo mese di dicembre l’inflazione ha segnato un aumento dello 0,2% su base mensile in gran parte dovuto all’aumento dei prezzi dei vegetali freschi (+13,8%), dei beni energetici non regolamentati (+1,6%) e dei servizi relativi ai trasporti (+0,9%). È invece stabile il tasso di dicembre calcolato su base annua, +0,7% nei confronti di dicembre 2012 (lo stesso valore di novembre).
A determinare la stabilità sono stati, ha precisato l’Istat, l’accelerazione della crescita su base annua dei prezzi degli alimentari non lavorati compensata da una lato dall’ulteriore riduzione della flessione di quelli dei beni energetici e dall’altro dal rallentamento della dinamica tendenziale dei prezzi dei servizi relativi ai trasporti. Per quanto riguarda il cosiddetto carrello della spesa, comprendente i beni acquistati con maggiore frequenza, nella media del 2013 il tasso di crescita dei prezzi è sceso all’1,6% dal 4,3% del 2012. A dicembre, i prezzi di tali prodotti sono invece aumentati dello 0,5% su base mensile e dell’1,3% su base annua, con un’accelerazione di mezzo punto percentuale rispetto al valore rilevato a novembre (+0,8%). A contribuire al tasso di inflazione medio per il 2013 sono stati principalmente i prezzi dei prodotti ad alta e media frequenza di acquisto. Questi ultimi hanno registrato una piccola decelerazione sull’intero anno (+1,2% dal +2,8% del 2012) e nel solo dicembre hanno segnato un +0,1% rispetto al mese precedente e un +0,3% rispetto a dicembre 2012 (in calo dallo 0,7% di novembre).
Cosa significa tutto ciò, in soldoni? Che non c’è domanda interna, si è schiantata: la capacità di spesa degli italiani è zero. I prezzi non salgono perché non c’è domanda e non c’è domanda perché mancano lavoro e credito: vi pare un’economia sana e degna del club del 3% questa? Inflazione, infatti, significa aumento della massa monetaria circolante, aumento che con sé porta anche quello dei prezzi: l’Italia è impiantata come un’automobile senza benzina. Direte voi, se come sembra la Bce sta per dar vita a un’altra asta Ltro, poi ci saranno un po’ di soldi per fare il pieno. Con l’Asset quality review e gli stress test alle porte? Con i soldi delle prime due aste ancora in gran parte da ridare entro l’anno da parte delle banche italiane verso la Bce? Con Monte dei Paschi che va verso la nazionalizzazione? Con i bilanci delle banche strapieni di titoli di Stato su cui si dovranno probabilmente operare degli accantonamenti sul rischio di perdite? Non scherziamo.
L’ineluttabilità di quanto sta per accadere a Francoforte è figlia naturale di tre cose: primo, il timore, anche tedesco, di un’ondata euroscettica al voto europeo di maggio, fatto che impone un allentamento della cinghia per evitare che i cittadini vedano in Bruxelles unicamente una matrigna. Secondo, la Francia che si sta schiantando. La seconda economia europea, infatti, è completamente ferma, ha il tasso di disoccupazione ai massimi dagli anni Settanta e veda la grande impresa, il suo vanto e motore assoluto, nei guai fino al collo. Ieri la riprova, quando l’Associazione dei costruttori di autoveicoli ha certificato che il mercato dell’auto transalpino è sceso ai livelli più bassi da 15 anni a questa parte, con solo 1,79 milioni di nuove auto vendute nel 2013, -5% dall’anno precedente. Terzo, due aste di sterilizzazione fallite negli ultimi quindici giorni senza che il mercato crollasse significano solo due cose: o Ltro già prezzato o il fatto che gli investitori diano per probabile che d’ora in poi la Bce acquisti titoli di Stato senza dover sterilizzare, ovvero aumentando lo stato patrimoniale come la Fed e dando vita a un quantitative easing in piena regola. Ecco fatto, gli spread italiano e spagnolo sono in forma smagliante senza che un solo dato macro sia in effetti migliorato davvero (a meno che voi non vogliate credere davvero che il tasso di disoccupazione spagnolo a dicembre sia sceso del 2,24% rispetto a novembre, perché in quel caso il passo successivo è credere a Babbo Natale. Come lo so? Guardate il grafico a fine pagina: quella linea che crolla sono i prestiti alle imprese non finanziarie da parte delle banche spagnole, le quali nel mese di dicembre hanno anche dato vita a una ristrutturazione in vista della supervisione unica. Senza credito alle aziende, come si crea occupazione? Tutti assunti da banche, finanziarie, hedge funds e centri studi economici quegli spagnoli che hanno trovato lavoro? Andate a raccontare balle altrove, per favore).
Parlavamo poi della seconda notizia che circola sui mercati, ovvero che la Germania possa essere l’epicentro di qualcosa di importante. In effetti, quella di giovedì è stata una giornata strana: l’indice Dax di Francoforte ha chiuso al -1,59%, ma in serata i futures sullo stesso sono arrivati a perdere il 3%. Una grande banca stava per annunciare cose poco piacevoli? No, la voce che circolava e che avrebbe spaventato gli investitori sarebbe stata quella della pubblicazione, mercoledì prossimo, di un estratto della sentenza della Corte costituzionale di Karlsruhe sulla liceità del programma di acquisto obbligazionario Omt della Bce. Ora, a logica, due le condizioni di mercato: si prezza la bocciatura della costituzionalità, quindi si uccide il programma nella culla. A quel punto, però, gli spread nostro e spagnolo avrebbero dovuto impennarsi e così non è stato. Si va contrarian e si prezza il via libera, cosa che spiegherebbe i movimenti positivi dei differenziali dei cosiddetti “periferici”. Ma perché affondare il Dax? I mercati prezzavano così la sconfitta politica del duo Merkel-Schauble contro Mario Draghi, ridimensionando i vantaggi che la Germania ha tratto finora dalla politica di pura austerity?
Non è da escludere. Anzi, appare plausibile. Ieri, però, sui mercati è stata festa, nonostante anche i futures sul Ftse Mib nella sera precedente prezzassero un -0,87%. Cosa sta succedendo? E come spiegare altrimenti il Cac40 di Parigi che sale di oltre mezzo punto dopo il dato agghiacciante giunto dal settore automobilistico? I mercati sanno che Draghi sta per stampare, ci siamo, manca pochissimo. Poi, però, ecco la doccia fredda, preparataci con tanto amore dai quei simpaticoni del Fondo monetario internazionale. Nell’ultima ricerca commissionata dall’istituto di Washington, infatti, si dice chiaro e tondo che molte economie avanzate necessiteranno di repressione finanziaria, ristrutturazione del debito, inflazione più alta e una varietà di controlli sul capitale.
Lo studio, condotto da professori di Harvard, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, sottolinea come la proporzione attuale del debito pubblico nelle economie occidentali non permetta una risoluzione dei problemi solo attraverso l’austerity fiscale e i politici hanno sottostimato la profondità e la durata di questo stato recessivo. Si parla poi di “amnesia colletiva” rispetto a quanto accaduto alle nazioni europee per i debiti della Prima guerra mondiale e agli Usa durante gli anni Trenta, sottolineando come le attuali politiche non faranno che aggravare i costi finali del delevarage.
Certo, il precedente studio dei due professori, dedicato alla crescita in tempi di debito alto e citatissmo dal mio amato commissario Olli Rehn, fu distrutto nell’aprile dell’anno scorso da un dottorando in economia che svelò errori di calcolo matematico elementari, tanto che persino i cattedratici dovettero ammettere lo sbaglio, quindi potremmo riderci su e basta. Ma questa volta temo che la ricetta per uscire da una crisi così lunga – ovvero un combinato di controlli di capitale, repressione finanziaria (ovvero patrimoniali e prelievi forzosi), inflazione e default – sarà il destino di molti paesi europei. Italia inclusa, nonostante i festeggiamenti per lo spread in discesa.
La Germania sa che la misura è colma e le ratio debito/Pil di molti Stati membri dell’Ue sono al di là del punto di non ritorno (Grecia e Italia in testa), sa benissimo che occorrerà – per sconfiggere il male del debito eccessivo – ricorrere a quelle misure, quindi sta preparandosi all’unica opzione possibile: uscire dall’euro, essendo in condizioni macro-economiche in grado di reggere lo shock. Berlino si prepara a dirci addio e lasciarci al nostro destino. Attenti al Dax e alle mosse tedesche nelle prossime settimane. Siamo al “Germexit”.