“Lo spread che a inizio anno si aggira attorno ai 200 punti base, scendendo anche sotto tale soglia, indica che i mercati apprezzano l’operato del governo, il suo impegno per il mantenimento della stabilità dei conti e per l’avvio delle riforme, sia istituzionali che economiche”. Lo ha detto il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni. Lo forbice tra Btp e Bund è scesa sotto la soglia psicologica dei 200 punti base per la prima volta dal 6 luglio 2011. Il tasso sul decennale è al 3,93%. “Questo – ha aggiunto Saccomanni – si tradurrà in una minore spesa per interessi sul debito pubblico e nella possibilità di avere a disposizione più risorse per investimenti e per alleggerire il carico fiscale”. Abbiamo chiesto a Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison, come interpretare questo dato.
Come si spiega questo calo? Non sembrano per niente migliorate le condizioni della nostra economia. Forse lo spread non è più un indicatore interessante?
In primo luogo, bisogna tenere conto del fatto che questo calo dello spread non riguarda solo l’Italia, ma un po’ tutti i debiti sovrani dei paesi che sono stati più in tensione negli ultimi due anni. Prova ne è il fatto che anche lo spread della Spagna è sceso sotto i 200 punti ed è calato addirittura più di quello italiano. Quindi non è solo un fenomeno italiano.
Da cosa dipende?
È un fenomeno generale dovuto al fatto che, già nell’estate del 2012, la Bce, e soprattutto il presidente Draghi, aveva preso una posizione molto coraggiosa dicendo: “Difenderemo l’euro a qualunque costo”, e annunciando la possibilità di mettere in funzione il programma Omt, che di fatto non è mai partito, perché non è mai stato necessario attivarlo: è stato sufficiente l’annuncio per avere da quel momento in poi un calo tendenziale di tutti gli spread. Se si va a vedere cos’era successo fino a quel momento…
Ricordiamolo brevemente.
Non era bastato neanche il governo Monti a far scendere lo spread, che anzi era risalito un po’ prima dell’estate del 2012 in maniera abbastanza preoccupante. Ma quando è intervenuto Draghi la situazione è cambiata completamente. In pratica stiamo vivendo un momento favorevole, di contesto generale, perché i mercati non pensano più che l’euro oggi non sia più una moneta a rischio. Agli inizi del 2012 in molti pensavamo invece che l’euro sarebbe finito. E che ci sarebbe stato il break tra euro del nord ed euro del sud. C’erano scenari apocalittici che, a partire dall’annuncio del programma Omt, sono andati completamente ridimensionandosi e tutto ciò ha portato a un rasserenamento del clima.
Cos’ha fatto l’Italia per rassicurare i mercati?
Sicuramente l’Italia oggi sta facendo anche lei il suo dovere per rassicurare i mercati e direi che questo appare evidente dal fatto che siamo uno dei pochi paesi che nel triennio 2012-2014 potrà appuntarsi sul petto la medaglia del rapporto deficit/Pil sotto il 3%. Non sono molti i paesi, non solo in Europa – non parliamo di Stati Uniti e Giappone – a poterlo fare. Il nostro è un Paese che in uno scenario di miglioramento del clima sull’euro, sta facendo il suo dovere, sostanzialmente i famosi “compiti a casa”.
Se dovessimo quantificare i benefici di questo calo, su che ordine di grandezza saremmo?
Già il Presidente della Repubblica nel suo messaggio di fine anno ha ricordato che i vantaggi dovuti al calo dei tassi hanno generato per l’Italia risparmi che si possono quantificare in 5 miliardi. È importante che questo risparmio si possa ripetere in qualche misura anche nel 2014. Qui però dovremmo essere un po’ più prudenti.
Perché?
Il 2014 sarà difficile, perché bisognerà dimostrare la continuazione di un trend. Il clima di rasserenamento generale è stato favorito anche da politiche espansive, sia pure in fase di ridimensionamento, come il tapering negli Stati Uniti, che finora hanno inondando i mercati di liquidità. E molta di questa liquidità, nel clima rasserenato sull’euro, è tornata proprio a investimenti sui titoli sovrani europei che prima invece spaventavano tutti. C’è chi ha ripreso a investire anche sul Portogallo. In più…
In più?
Sono stati presentati, a dire il vero con una certa enfasi, financo eccessiva a mio avviso, i grandi miglioramenti ottenuti da paesi come l’Irlanda e la Spagna. La scorsa settima abbiamo sentito il presidente dell’Esm (il fondo salva-Stati, ndr), Klaus Repling, dire che la Spagna ha fatto una manovra straordinaria di salvataggio delle sue banche. Lo credo bene: gli hanno prestato 41 miliardi di euro che devono ancora restituire! Li avessero dati all’Italia avremmo fatto anche il ponte sullo Stretto di Messina, la Salerno-Reggio Calabria, oltre a salvare il Monte Paschi e un sacco di altre cose. Questo tipo di comunicazione da parte di organismi e istituzioni europee hanno sicuramente contribuito a rasserenare il clima per gli investitori e a rendere i tioli sovrani europei meno pericolosi nella percezione generale.
Torniamo all’anno appena cominciato: quali sono le difficoltà che abbiamo davanti?
Da una parte dovremo fare i conti con l’allentamento dell’inondazione di liquidità che stanno facendo gli Stati Uniti, dall’altra bisognerà vedere come avverrà il collocamento dei titoli nel 2014. Perché sono tanti quelli da collocare.
Quali sono?
Il 2014 è un anno complesso che va preso con le pinze. Innanzitutto diciamo che l’Italia ne deve collocare più o meno 400 miliardi all’anno per rinnovare i debiti in scadenza e gestire il roll over dei Bot a breve termine, che scadono durante l’anno. Quindi è un impegno forte. Ma non è solo l’Italia che deve rinnovare tanto debito: c’è anche la Francia che ha un sacco di debito, la Germania, l’Inghilterra. Oggi siamo in un contesto generale dove la fame di rifinanziamento dei debiti è più che raddoppiata, quasi triplicata rispetto a dieci anni fa e non certo per colpa dell’Italia che tutto sommato ha un debito pubblico che è cresciuto percentualmente meno in termini monetari in tutta l’area Ocse dopo quello dello Svezia. La realtà oggi è questa: non abbiamo un debito che è sfuggito di mano, lo teniamo sotto controllo più di qualunque altro Paese in Europa, tranne la Svezia, e sicuramente molto di più di Stati Uniti e Giappone, fuori dall’Europa.