Il consiglio della Banca centrale europea si riunisce oggi e trova sul tavolo le cifre chiave per capire quel che attende l’Eurolandia in questo 2014. Eurostat ha diffuso l’altro ieri i dati sui prezzi al consumo a dicembre: la crescita media nei 17 paesi che hanno adotatto la moneta unica è stata dello 0,8%, in Italia e Spagna siamo già vicini a quota zero, esattamente 0,2% e 0,3%. La media è portata in alto dalla Germania con un modesto 1,2%, ben al di sotto dell’obiettivo fissato dalla Bce, cioè due punti percentuali l’anno. Cipro è già in territorio negativo (esattamente -2,3%), ma il grande pericolo riguarda quel che accadrà alle aspettative dei risparmiatori e degli investitori quando anche italiani e spagnoli vedranno i prezzi scendere in termini assoluti. L’abbiamo scritto più volte su queste pagine, adesso la parola deflazione campeggia sul Financial Times, sul Wall Street Journal, sul New York Times.



È già successo a metà del 2009; allora, però, l’intero Occidente stava attraversando la recessione provocata dal crac finanziario dell’anno precedente. Oggi, al contrario, la curva della produzione è in risalita ovunque, anche se in misura modesta e non con lo stesso passo. Una riduzione secca dei prezzi in fase di ripresa vuol dire che il rischio paventato da Larry Summers per l’intero Occidente, cioè una lunga stagnazione di tipo giapponese, diventa realtà nei paesi che adottano l’euro.



Cosa può fare la Bce? Draghi ha detto che la sua santabarbara è ancora ricca di munizioni. La prima mossa potrebbe essere portare i tassi di interesse sotto zero per le banche che depositano i fondi presso la banca centrale, in modo da spingerle a prestare a famiglie e imprese. Una scelta che potrebbe essere sostenuta anche da una nuova ondata di denaro liquido alle stesse banche e da sostegni diretti alle piccole imprese. Vedremo. Certo, occorre superare la resistenza della Bundesbank che ora ha nel consiglio non solo il proprio presidente Jens Weidmann, ma anche la ex vicepresidente, nominata da Berlino come rappresentante del ministero delle Finanze: la signora Sabine Lautenschläger, che si è distinta per la sua ortodossia. Draghi, dunque, dovrà essere ancor più abile nell’arte di creare il consenso. E ogni giorno cade una doccia fredda.



L’Ifo, l’istituto per lo studio della congiuntura guidato da Hans-Werner Sinn, prevede una crescita contenuta in Germania (+1,9%) a fronte di una media dell’eurozona dello 0,7% appena. Ma soprattutto presenta fosche proiezioni per tutti gli altri grandi paesi: le prospettive sono negative per la Francia, la Spagna e la Grecia, che avranno una disoccupazione difficilmente sostenibile, mentre il quadro per l’Italia è addirittura “catastrofico”. Dunque, la ripresa farà aumentare le divergenze che la recessione ha allargato. E la fuga solitaria della Germania rischia di creare una frattura con tutta l’Europa che conta.

Sinn è sempre stato un “falco”, ma non è un irresponsabile e a questo punto propone una grande conferenza tra tutti i paesi dell’Eurolandia per affrontare insieme la questione dello stock del debito. Quello di Sinn è una sorta di scambio: da una parte un rafforzamento delle misure di aggiustamento dei bilanci pubblici (insomma austerità) e dall’altra una messa in comune di quella parte del debito che arriva al 60% del Prodotto interno lordo. Cosa significa in concreto? L’Italia supera il 130% e dovrà comunque agire sul 70% eccedente il limite stabilito dal trattato di Maastricht (a cominciare dal prossimo anno scatta la terribile tagliola del Fiscal compact). Ma in questo modo potrà emettere annualmente titoli non per 400 ma per poco più di 200 miliardi; il resto entra nel fondo comune europeo. Dunque, si pagheranno meno interessi e il disavanzo statale sarà inferiore. Il che consente di fare un po’ di investimenti pubblici soprattutto se il governo saprà tagliare la spesa corrente in termini reali.

Wolfgang Münchau nel suo blog Eurointelligence apprezza la proposta di Sinn, un economista con il quale non va d’accordo tanto spesso, ma ammette che “non c’è alcuna possibilità che ciò accada”. E aggiunge che la crisi dell’eurozona “non va verso una soluzione politica. Alla fine una soluzione si troverà. Ma probabilmente attraverso un processo molto più caotico e che, certo, non durerà poco”. Speriamo che abbia torto, però tutti sappiamo bene che allo stato attuale l’editorialista del Financial Times fotografa correttamente una situazione di fronte alla quale Draghi non può fare molto, perché il dilemma non è più monetario, bensì politico: non è questione di stampare euro per impedire che l’intero sistema resti a secco, ma di sostenere una parziale messa in comune del debito e ciò deriva da una scelta dei governi che, oggi come oggi, Angela Merkel non farà e nessun altro avrà il coraggio né la forza di fare.

Dunque, senza essere profeti di sventura, è chiaro che, ancora una volta, toccherà al mercato scuotere la foresta pietrificata della politica. Poi sentiremo gli stessi che non hanno voluto agire prendersela con il solito complotto pluto-giudaico-massonico. La crisi del sistema monetario europeo nel 1992 non è avvenuta per colpa di George Soros o della Goldman Sachs, ma perché la Bundesbank ha rifiutato un riallineamento concordato delle valute e ha mosso unilateralmente i tassi d’interesse sul marco. È storia, peccato che prevalga sempre la leggenda.

Draghi è ben consapevole del problema, e può darsi che oggi discuta con gli altri banchieri centrali come preparare i sacchetti di sabbia. Molto dipenderà dai margini di manovra che gli daranno non per affrontare il nocciolo della questione (che sta, lo ripetiamo, nelle mani dei governi e di quello tedesco in particolare), ma per evitare il peggio, cioè il collasso dell’unione monetaria sotto i colpi della speculazione finanziaria. Nel 2012 sono stati creati nuovi strumenti e il presidente della Bce ha ottenuto un sostanziale via libera per sfidare apertamente i nemici dell’euro. Ma il sospetto è che questa volta i nemici non siano fuori bensì dentro le mura, i tartari hanno penetrato la fortezza Bastiani, logorata da così lunga e angosciante attesa di uno showdown che non si può rimandare all’infinito.

L’Italia in questo momento è il vaso di coccio con un’economia troppo grande per essere salvata, troppo fiacca per farcela da sola e troppo fragile per reggere una nuova ondata di austerità come quella prevista dal Fiscal compact. L’indebolirsi progressivo della Francia non sarà d’aiuto: non vale il detto mal comune mezzo gaudio. Il governo francese verrà spinto, sotto l’ondata di un’opinione pubblica sempre più euroscettica, a cercare una soluzione per proprio conto riesumando il fantasma del “moteur” franco-tedesco. Enrico Letta sa di storia, ma è troppo occupato a guardarsi i fianchi dal movimentismo renziano: non ha né il tempo né la testa per pensare a qualche contromisura. Sia chiaro, non è facile trovare una soluzione.

I più realisti sostengono che non ci sono alternative, non resta che ingoiare altri calici amarissimi. Ma senza dubbio questo è il passaggio decisivo del 2014. Peccato che il teatrino mediatico-politico discuta d’altro.