Finalmente il ministro Padoan ha ammesso l’ineluttabile. Secondo fonti del ministero, per quest’anno il Pil avrà una variazione negativa pari al -0,3% rispetto all’anno scorso, mentre l’obiettivo del pareggio di bilancio è stato spostato al 2017. Ma la presa per i fondelli continua, poiché prevedono la crescita del Pil intorno all’1% per il 2015 e per due o tre anni a seguire.
La domanda cruciale rimane la solita: perché mai il Pil, in una condizione di depressione economica, dovrebbe salire? La depressione economica è strutturale e internazionale, perché mai dal prossimo anno dovrebbe salire? E perché mai dovremmo credere alle previsioni di personaggi e istituzioni (come l’Oce e il Fondo monetario internazionale, da cui proviene Padoan) che negli ultimi anni le hanno sbagliate tutte?
Sia detto chiaramente: un aumento del Pil, cioè un’inversione di tendenza rispetto al trend attuale, è ragionevole se interviene qualche fattore straordinario (un forte investimento straniero o di Stato; oppure una nuova scoperta tecnologica che ponga l’industria italiana nel complesso all’avanguardia rispetto al mondo). Altrimenti il nostro destino è già segnato dalle scelte economiche e politiche attuali e dalla matematica: la crescita inevitabile del debito insieme alla mancanza di crescita dell’economia porterà alla soluzione peggiore, cioè la (s)vendita dei beni di Stato.
La definisco la scelta peggiore perché porta a un inevitabile impoverimento e non risolve alla radice il vero problema, cioè la crescita del debito e la non crescita dell’economia. Se vendiamo Finmeccanica oppure il Colosseo, chi compra lo farà per fare un affare, a condizioni vantaggiose. E questo non intaccherà in alcun modo la dinamica di continua crescita del debito e la recessione in corso. Anzi, alla lunga le cose potranno solo peggiorare, perché lo Stato avrà un bene in meno da cui trarre gli utili, quindi questo peserà sul bilancio: e a fronte di tagli della spesa statale, vi saranno in conseguenza minori entrate per l’economia reale e quindi un ulteriore peggioramento della depressione in corso.
Non c’è niente da fare, se lo Stato non ha sovranità monetaria, se lo Stato perde il potere di stampare moneta, dalla crisi economica non si esce. Ora pure la Francia se ne è resa conto e inizia a protestare contro l’austerità imposta dalle istituzioni europee. Esponendosi anche a figuracce politiche, perché il recente cambio di governo è avvenuto proprio per l’ostilità del ministro dell’Economia alla politica di austerità. Ora, dopo il cambio di governo, la politica francese sembra aver dato ragione proprio a quella posizione. Ma nessuno sembra preoccuparsi delle conseguenze implicite: tutto ciò costituisce un indebolimento della posizione di Draghi, che sta divenendo sempre più fragile anche nei confronti della politica tedesca. E pure la storiella della “indipendenza dei banchieri centrali dalla politica” è ormai una favola per gonzi.
Il pericolo vero è un disfacimento incontrollato delle istituzioni europee. Mentre la soluzione ottimale sarebbe un completo cambio di paradigma (e di rapporti delle istituzioni fondato sul principio di sussidiarietà, un principio anche europeo ma ormai lettera morta) con un movimento dal basso, popolare e fatto di scelte condivise. Proprio la strada che le istituzioni europee hanno abbandonato quando le libere scelte dei popoli hanno iniziato a dare risposte negative.
Proprio per riprendere il filo interrotto con i popoli, la Chiesa in Italia ha indetto all’inizio del 2014 un convegno nazionale da tenersi a fine ottobre, meticolosamente preparato da incontri svoltisi in tutte le diocesi italiane. Il convegno si svolgerà il 24-26 ottobre a Salerno e avrà come titolo “Nella precarietà la Speranza”. Quello sarà il primo passo, cioè riprendere il filo interrotto con la società civile e rimettere al centro del progetto sociale l’uomo e i suoi bisogni, insieme al bene comune. Ridare la sua centralità alla Dottrina sociale della Chiesa che, nel momento presente, può essere condensata con la frase durissima contenuta nell’ultima enciclica: “Il denaro non deve governare!”.
Non si tratta quindi di essere antieuropei, ma di chiarire una volta per tutte che le istituzioni europee devono servire al bene comune e che le ragioni del bene comune devono prevalere rispetto alle regole della finanza. E se le istituzioni non sceglieranno questa linea, i popoli hanno il dovere morale di sciogliere certe alleanze perverse, di riprendere la parte di sovranità incautamente affidata e di prendere la propria strada.
L’Unione europea e la Bce sono nate per conseguire degli obiettivi precisi. L’Unione europea è nata per scongiurare nuove guerre e favorire la pace. L’obiettivo è largamente fallito: mai si era sentito il capo di un paese europeo (Renzi) apostrofare un altro dicendo che non ci possono trattare come scolaretti (magari con ragione). La Bce aveva l’obiettivo di favorire il benessere economico controllando la crescita dei prezzi e rendendoci più forti nei confronti di shock esterni. L’obiettivo anche qui è largamente fallito. Il semplice controllo dei prezzi non porta al benessere, soprattutto quando è tanto diffusa la disoccupazione. E l’unione monetaria non ci ha difeso da una crisi nata da fuori e mai uscita dalla zona euro, mentre quelli di fuori si stanno riprendendo (anche grazie alla sovranità monetaria e alla nostra debolezza).
Un quadro desolante, che non può ragionevolmente suscitare una qualche speranza. La speranza non può venire dalle istituzioni, ma dai popoli.