L’Europa è al bordo del baratro. Da un lato si è polarizzato il discorso politico europeista, dall’altro si è infranto definitivamente l’equilibrio del suo sistema economico. Il discorso politico è dicotomico: da un lato, la Germania – con Olanda, Austria, Finlandia e Lussemburgo – che insiste sul rispetto delle regole fondative del percorso unionista (da Maastricht a Lisbona e al Fiscal compact), dall’altro, tutti gli altri che, pur se con accenti diversi, propendono per scelte integrazioniste transatlantiche che presuppongono una revisione dei parametri di appartenenza all’eurozona. Una dicotomia sostanziale che trova difficoltà a ricomporsi nel consociativismo collaborativo tra le due famiglie politiche europee, il Pse e il Ppe, ma anche all’interno di ciascuno dei gruppi politici.
Così nasce la nuova Commissione europea guidata dal lussemburghese Jean-Claude Juncker che, da abile manovratore del sistema di governance europea, cerca di trovare una sintesi. Non può sfuggire però che i posti chiave della Commissione siano stati affidati a personalità allineate alla Germania: l’abile giurista tedesco Martin Selmayr, attuale capo del “transition team” e futuro capo di gabinetto di Juncker; l’olandese Frans Timmermans, designato primo vice presidente della nascente Commissione e “supervisore” dell’area economica e monetaria. Si ha l’impressione che la nuova Commissione sarà gestita dal triumvirato Juncker-Selmayr-Timmermans a detrimento della collegialità, e sicuramente a garanzia che gli interessi tedeschi non siano deviati dagli altri.
Questa “Maastricht al rovescio” è la condizione perché la Germania e i suoi satelliti restino nell’eurozona e nella stessa Ue. Di questa impostazione si è avuto contezza durante le audizioni parlamentari dei commissari designati – dall’umiliante trattamento inflitto al francese Moscovici agli emendamenti apportati al testo della svedese Malmstrom – ma anche nel delicato braccio di ferro tra la Corte europea di giustizia e la Bundesferfassungsgericht in materia di compatibilità del programma Omt della Bce con il diritto europeo e costituzionale tedesco.
In sintesi, l’Ue ha strutturalmente condotto all’emergere di un egemone che esercita il proprio potere all’interno dell’Unione ma anche nelle relazioni esterne (principalmente con Usa e Russia). Tuttavia, la situazione è instabile perché il quadro politico di riferimento potrebbe subire pesanti sconvolgimenti con le elezioni presidenziali francesi e americane (2016) e quelle legislative britanniche (2015) e tedesche (2017).
Non è un caso che il 9 ottobre il Financial Times ha lanciato l’allarme sull’eurozona che starebbe diventando l’epicentro di una crisi finanziaria mondiale ben peggiore di quella del 2008. L’azione coordinata di Qe condotta dalle banche centrali americana, giapponese e britannica ha avuto come conseguenza un drenaggio costante di “collaterale di qualità” – titoli di stato sicuri americani, britannici, francesi, tedeschi e giapponesi – stimato a 10 triliardi di dollari, lasciando un vuoto per garantire il collocamento ulteriore di liquidità. Come nota su queste pagine Mauro Bottarelli, se la crisi del 2008 era principalmente legata all’investment banking, quella che si sta preparando è dell’obbligazionario sovrano a livello globale ma con epicentro l’eurozona.
Come ha consigliato il Fmi nel suo ultimo rapporto presentato a Napoli, solo una decisa azione di Qe della Bce potrebbe “liberare” i collaterali di qualità a favore di tutte le altre sfere del trading. Per ora la Bce non ha questo potere nel suo mandato e in considerazione del contenzioso sull’Omt non avrà tali poteri almeno per altri 12-18 mesi. A questo si aggiungono le fosche previsioni di George Saravelos, un responsabile delle strategie della Deutsche Bank, che vede nell’Europa “la nuova Cina”, cioè il più grande accumulatore di surplus commerciale ed esportatore di capitali nel mondo per oltre una decade, alla ricerca di ritorni più elevati. Questo sarà accompagnato dalla continua depressione della domanda nell’eurozona. La sua previsione è che nel 2017 il cambio euro/dollaro scenderà sotto la parità (0,95). Ciò accelererà la fuga dei capitali e non basterà a rilanciare la domanda nell’eurozona, a tutto vantaggio degli asset dei paesi emergenti.
In questo scenario si può meglio comprendere la portata strategica del “tapering” lanciato dalla Fed nel secondo semestre 2013 e l’insistenza americana perché l’Ue firmi entro la fine del 2014 gli accordi di libero scambio Ttip e Ceta. Ecco perché Federica Mogherini, designata ad Alto Commissario per la politica estera dell’Ue, ha dichiarato nella sua audizione parlamentare che “il patto transatlantico di libero scambio Usa-Ue (Ttip) non riguarda solo il commercio ma ha una valenza strategica”. Tanto è vero che la Germania non vuole accettare il declassamento della sua giurisdizione nelle dispute tra investitori e Stato a favore di corti arbitrali anglosassoni.
Non è un caso, quindi, che Selmayr abbia corretto il testo della candidata svedese al commercio dell’Ue ribadendo che, “come ha detto Juncker nel suo indirizzo al Parlamento europeo, egli non accetterà che la giurisdizione dei tribunali dei paesi membri dell’Ue sia limitata da regimi speciali per le regolare le dispute tra investitori e Stati”. In sintesi, l’Ue è spaccata anche nelle relazioni con gli Usa, oltre che rispetto alla Russia e al Medio Oriente.
Una situazione politica ed economica davvero grave che è malcelata anche nei summit europei (inconcludenti), com’è stato quello sul lavoro a Milano. Non esistendo più un “concetto strategico” interno per l’Ue, gli sforzi degli studiosi che si affannano a descrivere l’Unione come una “potenza normativa” a livello mondiale servono davvero a poco. Il negoziato su Ttip e Ceta lo dimostra. Infatti, appare chiaro che non esistendo più quella peculiarità europea fondata sul mix di fordismo e keynesianismo – cioè quel sistema di sviluppo economico che portava alla crescita grazie all’intervento nell’economia del capitale privato e dello stato – oggi l’Europa è vittima del “capitalismo flessibile” globalizzato che ne ha drenato le risorse.
Iniziato con le politiche monetariste negli anni ‘70-80, il “capitalismo flessibile” si è globalizzato negli anni ‘90 e oggi il suo effetto più devastante è l’estrema liquidità del capitale che, grazie alle deregolamentazioni, migra con grande velocità dagli investimenti produttivi a quelli finanziari a più alto rendimento. Il corollario è che sia il mercato dei capitali, sia quello del lavoro si sono globalizzati. A nulla sono servite le ricette di compressione del fattore lavoro (flessibilità) e le ristrutturazioni della produzione e nemmeno sono servite le ricette di austerità e di aggiustamento strutturale delle nostre società (riduzione della spesa pubblica). La ripresa economica e dell’impiego, e quindi della domanda interna, non c’è, come confermano tutti i dati economici negli ultimi tre anni.
Riassumendo, appare chiaro che l’Ue non ha la forza per resistere agli effetti devastanti del “capitalismo flessibile” globalizzato, né tantomeno ha speranze di rilanciare la domanda interna. Invece, emerge con forza che solo un “concetto strategico” dell’Ue nel sistema mondiale potrebbe ricreare quegli stimoli e quelle convergenze politiche necessarie a una ripresa. Per fare questo, la politica estera e di sicurezza dell’Ue dovrebbe interamente essere rifondata con massicce dosi di realismo.
Nonostante i problemi strutturali, l’Ue è un mercato che fa gola sia agli americani, sia agli asiatici (Cina e India), sia a quell’insieme denominato Eurasia. L’attuale situazione di debolezza dell’Ue è principalmente derivata dall’appiattimento sui dettami strategici ed economici che dagli anni ‘80 le sono stati imposti. Guardando con attenzione, esistono più ombre che luci nonostante gli sbandierati risultati economici vantati dalle economie americana e britannica. Sebbene ancora dominanti sul piano militare e finanziario, neppure questi paesi possono ritenersi capaci di “modellare il mondo”.
Una possibile uscita di sicurezza da questa situazione esisterebbe se il coraggio ispirasse e guidasse Federica Mogherini nel suo nuovo incarico. Piuttosto che l’ennesimo libro bianco, che sarà scritto dai soliti professionisti dei sofismi europeisti annidati nei cosiddetti think tank di Bruxelles, ella potrebbe trovare le idee guida nella storia. Infatti, la “comunicazione orizzontale” tra Europa, Eurasia e Africa è esistita per millenni. La capacità europea fu, nel XVI secolo, di trasformare un capitalismo diffuso in quello concentrato. Fu grazie alla fusione tra capitalismo di Stato e quello privato che l’Europa diventò il faro mondiale. Idee, queste, che non possono che incontrare il gradimento dei nostri partner in Eurasia e in Africa.
In questo quadro, effettivamente, l’Europa potrebbe essere quella “potenza normativa” mondiale, forte della sua esperienza.