Gli egemoni si sa che hanno la prerogativa dell’eccezione e dell’eccezionalità. Proprio in forza dell’esercizio di questa prerogativa si sta consumando uno scontro violento sul suolo europeo. Da un lato ci sono gli Usa, che dalla fine del gold standard hanno sposato una politica monetarista manipolativa – composta di svalutazioni, aumento della massa monetaria, inflazione/deflazione legata alle commodities, linee di credito buyback, deregolamentazioni strumentali e l’uso delle sanzioni economiche – che ha permesso di mantenere il dollaro come moneta di riserva mondiale. Dall’altro c’è la Germania, che dopo la stangata recessiva post riunificazione ha accelerato nella creazione dell’eurozona per dar vita a un meccanismo di consolidamento dell’Europa attorno ai fondamentali tedeschi – un meccanismo composto da contrazione della massa monetaria, limite rigido dell’inflazione per beneficiare delle asimmetrie dell’eurozona, destrutturazione e compressione del ruolo dello Stato nell’economia, riduzione della spesa pubblica sociale e controllo sovranazionale delle politiche economiche nazionali.



Gli Usa hanno potuto contare sul lavoro di squadra con il Regno Unito, che, come principale gestore mondiale dei derivati sulle commodities e sul forex, ha potuto trarre vantaggio per sé mentre svolgeva il ruolo di “guardiano” del dollaro in Europa. A riprova di questo stato di cose tutti ricordiamo ancora i (mis)fatti sul panfilo Britannia lungo le coste italiane nel 1992.



Questo quadro si è incrinato con il lancio (anticipato) dell’euro avvenuto con il regolamento della Commissione europea 1466/97, su proposta e redazione dell’allora ministro delle finanze tedesco, il falco della Cdu Theo Waigel. Probabilmente non fu un caso che dopo aver perso le elezioni legislative nel 1998 a favore di una coalizione Spd-Verdi, il cancelliere Helmut Kohl sia stato investito nel 1999 da un’ondata di accuse e processi che ne hanno gravemente rovinato l’immagine pubblica.

Mentre il governo rosso-verde di Gerhard Schröder rassicurava gli angloamericani mettendo in atto riforme neoliberiste e sostenendo il percorso di integrazione europea, è nel 2000 che la Germania mette le basi per diventare una vera potenza economica globale. Infatti, il consiglio di amministrazione della Deutsche Bank nominò Ceo lo svizzero Josef Ackermann. Quest’ultimo assunse le funzioni nel 2002, trasformando la blasonata e antica banca tedesca in un “attore principale mondiale dell’investment banking”.



Tre anni furono sufficienti per costruire una potenza di fuoco finanziaria che servì a Schröder per approfondire i legami orientali, con la Russia. Quest’ultima, con l’ascesa di Putin, non fidandosi a ragione dei “gentili” servizi finanziari britannici, conferì proprio alla Deutsche Bank la maggioranza della gestione dei derivati energetici. Non a caso Schröder si dimise nel 2005 e il giorno successivo comparve a capo del consorzio North Stream con il conglomerato russo Gazprom.

Dopo di lui, la Germania è governata da Angela Merkel, che, senza deviare dalla linea di Ostpolitik di Schröder (finché ha potuto), invece ha operato alacremente per realizzare il progetto Waigel in Europa. Così la Germania è passata, in poco meno di un decennio, da importante economia regionale ad attore di rango globale.

Ma come ha fatto Josef Ackermann (2000-2013)? In poco tempo la Deutsche Bank è diventata un trader mondiale dei derivati, cioè quei contratti il cui prezzo futuro è stabilito in anticipo anche di un paio di decenni. Si stima che a oggi il suo portafoglio totale dei derivati valga circa 55 triliardi di euro, cioè 5 volte il Pil dell’Ue, una cifra quasi equivalente al Pil mondiale. Ma il dato più sconvolgente è che questa massa di valore cartaceo è stata costruita con una leva finanziaria di oltre 100 volte rispetto al capitale depositato che è di 522 miliardi di euro. L’esposizione della banca verso le economie della periferia europea è minima (18 miliardi in Italia, 12 in Spagna e quisquiglie in Grecia).

È evidente come l’ascesa di un attore di queste proporzioni abbia infastidito la City di Londra, dove i giganti bancari Hsbc e Barcalys si sentivano insidiati proprio nel settore dei derivati che gestivano in quasi monopolio con le banche americane (Goldman Sachs e Lehman Brothers). Dopo la crisi del 2007-2008 la Lehman Brothers è stata “sacrificata”, mentre la Deutsche Bank ha continuato a lucrare (2004-2008) ben 32 miliardi di dollari proprio con i Cdo (obbligazioni di debito collateralizzato) sul mercato immobiliare americano.

Si può ben immaginare che i risentimenti verso Deutsche Bank siano molti e crescenti. Considerata l’enormità del portafoglio dei derivati della banca tedesca è abbastanza chiaro che semmai si dovesse procedere a un bail-in nessuno degli attori europei potrebbe intervenire, mentre la Fed americana sarebbe disposta a farlo (può stampare denaro a piacimento).

È su quest’ultimo punto, infatti, che si consuma lo scontro sul suolo europeo. La Fed ha interesse a che la Deutsche Bank non imploda perché causerebbe un danno diretto al settore finanziario americano simile o peggiore a quello della Lehman Brothers del 2008. Tuttavia, ogni aiuto ha un costo. Così la pressione sulla banca tedesca è mantenuta a bassa intensità con multe sicuramente irrisorie se si comparano a quella comminata nel 2014 alla francese Bnp Paribas (9 miliardi di euro). In cambio è la gestione politica della Germania che deve adeguarsi alle necessità americane: sanzioni alla Russia; sostegno negli interventi militari e di sicurezza; rilassamento delle regole di austerità nell’eurozona con l’obiettivo di mantenere a galla le economie più problematiche.

D’altra parte, nel luglio scorso il Wall Street Journal pubblicava un articolo ricordando la lunga lista di “litanie e seri problemi in relazione alle operazioni della Deutsche Bank negli Usa, incluso l’inaffidabilità del sistema di reporting, come anche certificato dall’auditor Kpmg, e la debolezza dei suoi sistemi informatici”. Non proprio delle lusinghe per una banca così grande! Nel settembre scorso, la Deutsche Bank è stata condannata dai regolatori del Regno Unito e degli Usa per aver manipolato il Libor (un indice per gli scambi monetari interbancari) e la procedura di definizione delle ammende è in corso almeno fino al 2015.

La banca ha già accantonato la somma di 7,8 miliardi di euro per il 2014 e ne ha stanziati altri 3 per il 2015. Tuttavia, ciò che preoccupa sono le attività investigative in corso da parte del Dipartimento della giustizia americano, della U.S. Commodity Futures Trading Commission e della Uk Financial Conduct Authority. Attività investigative che mantengono alto il “ricatto” americano sugli europei, come ebbe a dire piccato il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, dopo la multa a Bnp Paribas. Questo spiega abbastanza del comportamento tedesco rispetto all’eurozona, all’Ue, agli Usa e alla Russia. Il proiettile è in canna e un errore di valutazione potrebbe essere fatale per la Germania.

 

(1- continua)