Il prezzo del Brent, ossia dei barili di petrolio estratti nel mondo, che funge da punto di riferimento per il prezzo globale del greggio non raffinato, sta crollando. Gli economisti mainstream, ossia i liberisti neoclassici internazionali (volete un esempio italiota? Pippo Ranci Ortigosa e compagni, che hanno con i colleghi – si fa per dire -, distrutto l’industria energetica europea), dicono che tutto ciò succede per effetto dell’eccesso di offerta per via della crisi economica. È vero solo in parte. L’oligopolio petrolifero mondiale è profondamente diviso e sono le sue divisioni e non la teoria infantile delle imperfezioni del mercato a far crollare il prezzo dell’oil.



Certo, c’è la crisi dei paesi emergenti con la Cina in testa. Del resto Pechino sta provocando il crollo delle principali commodities del mondo: i maiali cinesi mangiano meno e le industrie pesanti hanno meno bisogno dei minerali ferrosi e non ferrosi del mondo. E la Cina è seguita dall’India, dal Brasile, dall’Indonesia e, soprattutto, dall’Europa che si sta avviando alla stagnazione secolare “da bunker”, per evocare il parallelo metaforico con Hitler asserragliato nel bunker mentre la Germania bruciava sconfitta.



L’istinto primordiale di potenza “stand alone” anche ora domina la Germania, che con il suo popolo intende affondare pur di non rinunciare alle sue demoniche fiabe dell’ordoliberalismus facendo così morire gli europei incatenati al suo dominio travestito da euro. Quell’istinto primordiale si ripresenta tra gli stati wahabiti sunniti del Golfo. L’Arabia Saudita e il Qatar stanno perseguendo una politica simile a quella “del bunker”, ma con più rispetto umano, ossia una tal vergogna da perseguirla nicodemisticamente nel contesto delle triplici o quadruplici facce che la loro politica estera impone ai rispettivi governi.



Questo lo dico ricordando che gli stessi stati semitribali aderiscono alla coalizione obamiana mentre contestualmente finanziano l’Isis e nel contempo ancora in campo petrolifero rompono il fronte dell’Opec. Gli altri partner (Venezuela in testa e Iran a seguire, con una produzione potenziale stellare, seguiti dal grande reservoir dell’Iraq) vorrebbero limitare la produzione sostenendo in tal modo il prezzo anche in presenza di calo della domanda. I sauditi e i loro compagni di Golfo, pur profondamente divisi su come condurre la guerra civile islamica contro gli sciti (che intraprendono da secoli, beninteso!), continuano invece a produrre “a manetta”.

La ragione? Vogliono tre cose. La prima: se il prezzo crolla lo shale oil nordamericano tanto decantato non diventa più conveniente costando così tanto da non poter esser possibile estrarlo con profitto, visti i suoi elevati costi. Secondo punto: se il prezzo crolla, si puniscono in un colpo solo tre avversari – gli Usa, che dopo quarant’anni di alleanza con i sauditi fornicano ora con i peccatori sciiti negoziando sul nucleare!; l’Iran, ossia la Persia da secoli avversaria degli arabi tutti e che ora minaccia i domini sauditi in ogni dove; la Russia, che con il grande Lavrov e la mediazione vaticana ha salvato Assad in Siria, rafforzando di fatto (mentre tutto sprofonda) il potere sciita, statuale e non.

Su tutto si staglia l’Iraq e la sua potenza petrolifera sostenuta ora – ironia della storia!- dai curdi, da un lato, che vendono petrolio anche ai loro nemici purché lo comprino, così come fa dall’altro lato l’Isis, che si impossessa dei pozzi e li fa rendere con un immenso mercato nero. Insomma, un gioco assai complesso e terribile che si gioca sotto gli indici di prezzo e li determina. E si osa ancora parlare di mercato?