Puntuali come l’estate di San Martino, a fine ottobre sono arrivate le turbolenze sui mercati. Il Sussidiario si è occupato dall’attuale congiuntura macroeconomica in una serie di analisi puntuali che hanno avuto il pregio di mettere a fuoco le cause latenti, e di portata internazionale, dell’attuale crollo dei mercati. In queste righe, e con la cautela necessaria ad analizzare fenomeni economici ancora in corso, si vuole concentrare l’attenzione su una situazione tutta europea e per certi versi sottovalutata nella sua pericolosità. Con il crollo delle borse, infatti, è tornato a crescere il divario tra il rendimento dei titoli di Stato italiani e quelli tedeschi.
È ancora lui, il terribile spread. Ieri temutissimo da banchieri e opinionisti, oggi questo deficit di fiducia sul debito nostrano fa meno paura, un po’ per l’abitudine a conviverci, un po’, onore al merito, per le prese di posizione della Bce. Da Francoforte, tuttavia, sono arrivati avvisi perentori: lo spread cresce perché l’Italia non sigla le riforme attese dai mercati. E pure a Bruxelles tira una brutta aria: a giudicare dal sorriso tirato di qualche commissario, la bozza spedita dal Governo rischia di ritornare a Roma con più di un commento a penna rossa.
Ma ad accostare spread e manovra finanziaria bisogna stare attenti, pena passare per folli. Nell’intervista al Ministro Padoan sulle colonne de Il Sole 24 Ore, infatti, Fabrizio Forquet esordisce mettendoci in guardia: “Ministro Padoan, nessuna persona sana di mente potrebbe mettere in relazione diretta lo scossone di questi giorni sui mercati e l’approvazione della legge di stabilità italiana”.
Chi non è ancora uscito di senno, allora, potrà aiutarci a mettere a fuoco un paio di avenimenti di ieri e di oggi, perché sulla finanziaria si preannuncia molto di più di un inevitabile teatrino politico. Anzi, a dirla tutta, la manovra italiana rischia di diventare il casus belli della prossima sfida europea. Ma per farsi un’idea della posta in gioco è necessario fare un passo indietro, riordinare i fatti, mettere in fila un paio di date e qualche numero.
Giugno 1997. Nel pieno del dibattito per il trattato di Amsterdam, che gli Stati membri stipuleranno il 2 ottobre dello stesso anno, atterra sulla scrivanie delle cancellerie europee un accordo dall’aria innocua: sotto il titolo di Patto di stabilità e crescita, la risoluzione del Consiglio di Amsterdam datata 17 giugno 1997 sancisce l’impegno di ogni Paese europeo a mantenere la sostenibilità della propria crescita attraverso un controllo rigoroso dei conti pubblici. E chi non vuole crescita? Chi non cerca stabilità?
Il primo Governo Prodi recepisce il Patto con i regolamenti del 7 luglio 1997. Ma cosa prevede l’anonimo trattato, nello specifico? Il Patto riprende Maastricht e recupera i parametri di convergenza sanciti dal celeberrimo accordo del ‘92. Nell’impianto originale, infatti, i vincoli su inflazione, debito e deficit pubblici sussistono solo fino alla creazione di una moneta unica. In linea teorica, quindi, Maastricht accompagna i paesi europei fino all’ingresso nell’euro e da quel momento cessa di vincolare i membri dell’Unione.
E un tale cavillo non era certo passato inosservato dalle parti della Bundeshaus: la linea intransigente, infatti, capitanata – neanche a dirlo – da Berlino, non può accettare un tale margine discrezionale in favore di paesi storicamente propensi all’inflazione. Soprattutto quando tale margine interviene una volta che i paesi inflazionisti condividono la stessa moneta della Bundesbank.
Con il Patto di stabilità, siglato in una notte di mezza estate, le preoccupazioni degli euro-intransigenti si trasformano in accordo vincolante: i parametri di Maastricht restano validi con durata illimitata. E il Prodi I, segnato dalla corsa per entrare nel club dell’euro e da grandi ambizioni personali, accetta il patto. Un grosso azzardo per un Paese che dal secondo dopoguerra ha costruito il proprio modello economico su debito pubblico e risparmio privato.
Come anticipato, il 2 ottobre 1997 i paesi dell’Unione firmano il patto di Amsterdam e conferiscono poteri più ampi alla Commissione di Bruxelles. E il 21 ottobre dell’anno successivo il primo Governo Prodi, perso l’appoggio di Rifondazione Comunista alcune settimane prima, chiude i battenti. Per lo stimato professore bolognese, tuttavia, è l’inizio di una nuova carriera a Bruxelles: undici mesi dopo, infatti, con un ampio appoggio bipartisan che raccoglie consensi dagli scranni di diversi paesi europei, Romano Prodi diventa Presidente della Commissione europea.
Ed è proprio durante questa presidenza che suona il primo campanello d’allarme: nel 2002 Francia e Germania sforano il vincolo che impone un deficit massimo pari al 3% del Pil. Le due più grandi economie europee mostrano i muscoli e vanno avanti, ma, a guardare bene, dietro le due infrazioni si nascondono motivi molto diversi: per il Governo transalpino sforare il tetto del 3% è vitale al fine di mantenere gli alti livelli di spesa pubblica che da sempre contraddistinguono l’economia d’oltralpe. Per Berlino, invece, sono anni di riforme strutturali: con l’Hartz plan cambiano pensioni e mercato del lavoro. E sui benefici di queste riforme i successivi governi tedeschi, decisamente meno lungimiranti, costruiranno la loro fortuna politica.
Tornando all’attualità, dopo gli scossoni a colpi di spread e i governi rimossi con risatine in sala stampa, oggi i campanelli d’allarme tornano a suonare a Roma come a Bruxelles: adesso sono Italia e Francia a puntare i piedi sugli accordi siglati in sede europea. Ma ancora una volta i deficit non sono tutti uguali: il Governo Valls punta a un disavanzo del 4,3% del Pil, ben al di sopra del tetto massimo. Con il piccolo particolare che Parigi in questi anni di turbolenze ha mantenuto la propria sovranità, magari ammaccata ma l’ha mantenuta. E difatti, dopo aver seminato il panico tra gli euroburacrati, il ministro delle Finanze francese, Michel Sapin, l’ha detto chiaro e tondo alla stampa d’oltralpe: “Sul budget decide la Francia, non Bruxelles”.
A ogni modo non sarà una tragedia, anzi rischia di trasformarsi in una commedia tutta francese: il prossimo Commissario economico sarà infatti Pierre Moscovici, che come da copione ha promesso zero sconti al suo Paese. E, sempre secondo la stampa transalpina, Berlino non ha intenzione di richiedere sanzioni contro Parigi; l’alleato storico va redarguito, ma nell’attuale contesto non può essere umiliato. E a ben vedere sorge il dubbio che in certe lingue di ceppo germanico alleato e suddito siano sinonimi: dai Paesi Bassi alla Finlandia, tutta quell’area sempre attenta a far quadrare i conti altrui non ha osato fiatare sui conti traballanti di casa Hollande.
E per Roma? Il campanello d’allarme suona eccome, proprio come nella bistrattata Bruxelles. Se qui il problema è il baratro in cui è crollata la legittimità delle commissioni europee, in Italia la manovra promette di rispettare il vincolo del 3%, ma rinvia di un anno il pareggio di bilancio. Di certo, dodici mesi di ritardo non sarebbero una tragedia. Ma Berlino vigila sui libri contabili di tutti e i fari della Commissione europea potrebbero restare a lungo puntati sui conti italiani. Quanto a lungo non si sa, ma sta di fatto che quando l’attenzione dei media si concentra sulle finanze pubbliche italiane, le banche tedesche dimostrano una certa propensione a sbarazzarsi dei titoli di Stato nostrani, incendiando i mercati.
Si tratterà forse di un’affermazione azzardata, come ci ha ricordato il giornale di Confindustria, ma la coincidenza resta molto curiosa: già in occasione dei tanto discussi stress test, le principali banche tedesche fecero piazza pulita del rischio Italia in pochi giorni. Sarà forse un caso di telepatia tra i diversi uffici rischi, ma nei mesi successivi Berlino si rifinanziò a zero, con grande sollievo dei tanti Landesbank e Sparkasse in debito d’ossigeno. E anche questa è l’ennesima coincidenza di questa storia.
Tornando ai nostri giorni, la scommessa è ormai ridotta ai minimi termini: o si passa a Bruxelles o si dovrà rimettere mano alla Legge stabilità. Ma se la finanziaria passa, a Bruxelles come a Francoforte, e se la ricetta, al netto delle alchimie contabili, dovesse davvero muovere un passo verso la crescita, allora lungo il pensiero unico rigorista si aprirebbe la fatidica prima crepa. E più di una clausola tornerebbe sul tavolo delle negoziazioni a Bruxelles.