Nel giorno in cui il Governo italiano rende nota la velenosa quanto scontata lettera di Jyrki Katainen, la Banca d’Italia difende la politica economica di Renzi. “Data l’eccezionale durata e profondità della recessione, le scelte del Governo appaiono motivate – scrive il Bollettino economico – Un più graduale processo di riequilibrio può aiutare a evitare una spirale recessiva della domanda; si giustifica se i margini di manovra che ne derivano saranno utilizzati efficacemente per rilanciare la crescita dell’economia e innalzare il potenziale di sviluppo nel medio e lungo termine”. Si tratta di un passaggio troppo importante per non essere stato discusso con lo stesso governatore Ignazio Visco.



È la prima volta in tanti anni che la banca centrale prende esplicitamente le difese del Governo, tanto più in contrapposizione aperta con la Commissione europea. Chissà cosa ne pensa Mario Draghi. Anzi, occorre chiedersi se il presidente della Banca centrale europea non fosse stato addirittura informato; non perché Visco abbia bisogno di un beneplacito esterno, ma per la delicatezza del momento.



Una cosa è certa: la lettera di Katainen sembra il compitino di uno studentello secchione prono ai desiderata della maestrina tedesca. Quanto all’irritazione di Barroso – un ex maoista che per farsi perdonare delle sciocchezze commesse in gioventù è diventato più realista del re, sempre debole con i forti e forte con i deboli – assume un sapore persino grottesco. Uomo modesto intellettualmente e politicamente, pessimo Presidente di una Commissione europea che ha perso qualsiasi potere, avendo rinazionalizzato l’Unione sotto l’usbergo tedesco, avrebbe voluto chiudere in bellezza scudisciando l’Italia contro la quale si è accanito in più occasioni, soprattutto tra il 2010 e il 2011. Il fido Katainen nella sua lettera ha tradito l’umore del vecchio protettore, ma essendo un giovanotto ambizioso che vuole conservare la poltrona, non si è spinto fino in fondo. Dopo l’uscita della Banca d’Italia, infatti, rischia che il cerino gli bruci le dita.



Pericolo scampato? Nient’affatto. Lo scontro con la Commissione europea e nella Commissione stessa è asperrimo e di qui a martedì, quando arriverà la valutazione sulla legge di bilancio, tutto è possibile, anche una bocciatura solenne che apra la porta alla procedura d’infrazione. Molto dipende da come Matteo Renzi saprà muovere le sue pedine, come riuscirà a convincere Bruxelles e soprattutto Berlino. Perché una cosa è certa: finora non ha affatto incantato Angela Merkel.

Che cosa rimproverano all’Italia il Governo tedesco e il suo portavoce a Bruxelles? In primo luogo, “una significativa deviazione rispetto al sentiero di aggiustamento verso l’obiettivo di bilancio di medio termine nel 2015 basato sul cambiamento pianificato del bilancio strutturale”. In sostanza, Padoan al quale è indirizzata la lettera, non ha tagliato il bilancio strutturale (cioè al netto degli interventi congiunturali) come prescritto dall’Ue: mezzo punto di Pil. Non solo: ha aumentato la spesa in deficit di 0,7 punti pari a 11 miliardi di euro. Il pareggio è rinviato di un anno e il debito anziché cominciare la discesa aumenta. Tutto ciò a dispetto delle raccomandazioni dell’azzimato giovanotto finlandese, del suo padrino portoghese e della madrina tedesca.

La lettera vuole spiegazioni, facendo finta di non aver letto né ascoltato quelle che a più riprese il Governo italiano ha dato e di non aver nemmeno guardato le previsioni congiunturali dell’Ue, del Fmi e dell’Ocse. E chiede chiarimenti a stretto giro di posta. Padoan li invierà oggi stesso, ma in realtà si tratta di un copia-incolla di quel che è contenuto nell’aggiornamento al Documento di economia e finanza già illustrato al Parlamento italiano. Dunque, un dialogo tra sordi?

Renzi ha due carte da giocare: un aggiustamento tecnico e una scommessa politica. Sul piano contabile, la Legge di stabilità contiene un escamotage perché ha messo da parte 3 miliardi circa da offrire a Bruxelles come compromesso. Ciò equivale a un’ulteriore stretta di un quarto di punto, la metà di quel che pretende l’Ue. Basterà? Forse no. Molto dipende dalle valutazioni politiche. E veniamo così alla seconda carta.

Il nuovo Presidente della Commissione Jean-Claude Juncker si è presentato sostenendo che le regole non si toccano, tuttavia vanno interpretate. L’ex primo ministro lussemburghese, eurocrate di lungo corso, non è visceralmente anti-italiano come il predecessore. Ma deve in ogni caso render conto al suo azionista di riferimento, cioè al Governo tedesco il quale ha intenzione di condonare Parigi anche se non ha mai rispettato il vincolo di bilancio del 3% negli ultimi dieci anni. È vero che il debito francese, sia pur crescente, è ancora sotto quota 100 e che il rating è molto alto (Aa1 per Moody’s), quindi non crea rischi ai mercati finanziari. Tuttavia, restano i due pesi e le due misure, perché l’interpretazione delle regole segue un criterio politico. Politique d’abord, alla faccia dei trattati.

Juncker, insomma, si trova nella scomoda situazione di mostrare indipendenza di giudizio. È chiaro che non approverà la scelta unilaterale dell’Italia. Tuttavia dovrà evitare la sindrome Barroso, valutando in modo non fazioso e non servile gli argomenti che il Governo di Roma e la Banca d’Italia offrono. Anche perché il bilancio per il 2015 va letto insieme alle riforme che il Governo sta varando, a cominciare da quella del lavoro. La prova non sarà facile, ma Juncker si gioca la propria credibilità.

Ammettiamo che Renzi eviti la bocciatura e gli basti mollare quel quarto di punto per essere promosso, potrà davvero tirare un sospiro di sollievo? O avrà solo comprato tempo? La politica di bilancio fin qui annunciata appare un gran gioco di equilibrio interno che poggia su un ancor più azzardato equilibrismo europeo. È legittimo chiedersi se ci sono le coperture visto che i tagli alla spesa o il recupero dell’evasione restano, oggi come oggi, delle speranze. Mentre incombe il rischio di aumenti delle imposte (più Iva e meno detrazioni) che farebbero rientrare dalla finestra quel che esce dalla porta. Ma una politica fiscale all’insegna dell’austerità in un Paese che da cinque anni stringe la cinghia, sarebbe un suicidio collettivo.

L’Italia cammina su un ponte tibetano; sta a Juncker non farlo oscillare troppo (con il rischio di creare una incontrollabile reazione a catena), ma sta a Renzi mettersi per tempo al riparo.