C’è poco da fare, i segnali che la Fed darà vita – in un modo o nell’altro – a un nuovo programma di stimolo, chiamiamolo Qe4, aumentano di giorno in giorno. Quello giunto ieri, poi, è particolarmente significativo, visto che arriva nientemeno che da Goldman Sachs, la regina dell’investment banking a Wall Street, la quale ha deciso di lanciarsi nell’acquisto selvaggio della bolla per antonomasia, ovvero le obbligazioni ad alto rendimento (quelle con yield alto ma correlato a un rating molto basso, cioè molto rischiose) che negli ultimi due mesi – come vi avevo già detto – avevano conosciuto una fuga di capitali proprio perché gli investitori temevano la fine del programma di stimolo e quindi agivano in modalità risk-off. Ma qualcosa è cambiato, come ci mostra il grafico a fondo pagina: dopo che il membro della Fed, James Bullard, ha lasciato di fatto la porta aperta al Qe4 se il mercato lanciasse segnali di crollo o l’economia reale non si fosse rafforzata abbastanza, ecco che gli high-yield bonds sono tornati la merce più appetita a Wall Street, tanto che Goldman ha cominciato a comprare con il badile, mentre Aberdeen addirittura ha cominciato a scaricare securities europee per comprare debito privato Usa, definito da un trader «l’affare che in questo momento ti grida in faccia di comprarlo».



Insomma, la fame per obbligazioni CCC sta crescendo di nuovo, tanto che un altro trader sintetizza così il momento attuale: «Un giorno il mercato sembra che sia addirittura chiuso e tu non riesci a vendere nulla, ma al mattino dopo ti svegli e puoi prezzare qualsiasi parte della curva». Insomma, la regola ormai è solo una: non c’è niente di cui aver paura, se non della Fed. Anche perché, come si leggeva nell’ultimo sondaggio tra gli investitori redatto da Bank of America, nessuno crede più a un’ipotesi di Quantitative easing da parte della Bce, quantomeno su larga scala come occorrerebbe per tamponare l’evaporazione di liquidità che il combinato tra “taper” della Fed e stimolo mirato della Banca centrale cinese sta già innescando.



Lo stato di salute dell’economia mondiale, parliamoci chiaro, necessita di un Qe perenne: il Brent è crollato del 25% da giugno, il decennale Usa paga un rendimento dell’1,96% e il Bund ha toccato il minimo storico dello 0,81%. Siamo nella stagnazione secolare, con il rischio di un nuovo 1937, ovvero un ritiro anticipato dello stimolo senza un paracadute. Anche perché Francia, Italia, Spagna, Olanda, Portogallo, Grecia e Bulgaria sono in deflazione conclamata e per i Paesi che hanno ratio di debito pesanti, come il nostro, il danno che potrebbe causare questa condizione è enorme.

A confermarlo il fatto che proprio ieri un falco come il commissario Ue agli Affari economici e monetari, Jyrki Katainen, parlando del caso tedesco, abbia precisato che in tutti i paesi dell’Eurozona ci sono cali della crescita potenziale, inclusa la Germania: oggi a Berlino la crescita è all’1,5%, «troppo bassa», ha ammonito, invitando quindi il Paese a fare più investimenti. I paesi più forti e in surplus devono investire di più: un gran brutto segnale quando i rigoristi cominciano a chiedere più investimenti alla locomotiva (o ex tale) d’Europa.



C’è poi il rischio bancario, strettamente legato a quello dell’obbligazionario sovrano, ovvero dei debiti pubblici. Sempre ieri il direttore generale dell’Associazione bancaria italiana, Giovanni Sabatini, ha avvertito che «i risultati dei test della Banca centrale europea sulla qualità degli attivi di 131 banche europee non saranno di facile interpretazione ed è possibile una risposta volatile da parte dei mercati». Insomma, quando domani la Bce comunicherà quali banche non hanno superato l’esercizio e la carenza di capitale di ciascun gruppo bancario a fine 2013, qualcuno potrebbe essere tentato dal blitz di inizio settimana. Per questo, «i risultati degli esami Bce per le banche italiane devono essere interpretati: eventuali carenze a fine 2013 vanno poi consolidate con le azioni già fatte dalle banche italiane che hanno fatto aumenti di capitale per quasi 11 miliardi di euro quest’anno»: insomma, fifa nera.

Ma non solo l’Europa rischia, tutto il mondo è sul filo del rasoio. Morgan Stanley ha calcolato che il grado di esposizione alla leva lordo globale è salito dal 2007 a oggi da 105 triliardi di dollari a 150, mentre il debito è salito al 275% del Pil per il mondo sviluppato e al 175% per i Paesi emergenti: in entrambi i casi, un bel +20% dal 2007, situazione che per la Banca dei regolamenti internazionali potrebbe causare effetti violenti in caso di ulteriore ritiro di liquidità. Ma c’è dell’altro. Per il Centre for Financial Stability di New York la “Divisia M4”, ovvero il suo misuratore di crescita della moneta, è scesa al 2,5% dal circa 6% di inizio 2013, un qualcosa che deve fare riflettere perché se l’economia americana può gestire parzialmente una perdita di liquidità in dollari, quella mondiale no.

Ci sono infatti 11 triliardi di dolllari di prestiti cross-border in essere, i due terzi dei quali sono denominati proprio in biglietti verdi: basti pensare che dal 2008 a oggi le aziende dei mercati emergenti hanno preso a prestito sui mercati ulteriori 2 triliardi di dollari. E la Cina? In base a calcoli di Standard Chartered, il suo debito ha raggiunto il 250% del Pil, ingestibile per un’economia forte ma ancora in sviluppo e infatti il presidente, Xi Jinping, ha deciso una draconiana limitazione della liquidità, abbassando molto attivamente la base monetaria M2 per risolvere il problema della bolla del credito: insomma, non sarà Pechino a inondare i mercati di liquidità a basso costo, visto che l’ordine è di iniettare solo limitate “dosi” di contante nel sistema bancario con operazioni mirate per evitare default o bank-run.

Cosa fare, quindi, in un contesto simile? Sperare che la Fed non sbagli una mossa da qui a fine anno, altrimenti stavolta il 2008 sembrerà davvero una passeggiata nel parco. Ma attenzione, perché c’è una grossa incognita: ovvero il fatto che la settimana prossima la Fed confermi la fine del Qe3 per il semplice fatto che manterrà il suo stato patrimoniale all’attuale livello record di 4,48 triliardi di dollari e questo sarà sufficiente a mantenere bassi i costi di finanziamento e portare l’inflazione verso l’obiettivo prefissato, mantenendo così un supporto “invisibile” ai prossimi cinque anni di crescita dell’economia Usa, nonostante quanto accada in Medio Oriente, Europa o Cina.

Mantenendo i bonds acquistati nel suo bilancio, infatti, la Fed limita la loro circolazione e fornitura sui mercati pubblici, un qualcosa che garantisce prezzi alti e rendimenti più bassi di quanto non accadrebbe facendo il contrario: per Michael Gapen, economista alla Barclays di New York, questo tipo di atteggiamento sortirebbe per l’economia Usa lo stesso effetto di stimolo di un taglio dei tassi di interesse. Tanto più che il numero uno della Fed, Janet Yellen, ha lasciato la porta aperta all’ipotesi di mantenimento del portafoglio multimiliardario della banca centrale per anni, chiarendo che una decisione su quando smettere di reinvestire i bonds in maturazione dipenderà dalle condizioni finanziarie e dalle previsioni economiche: «La riduzione dello stato patrimoniale al suo livello storico normale potrebbe richiedere la fine di questa decade», ha dichiarato lo scorso mese.

Gli Usa salveranno il mondo con un altro Qe e lo lasceranno al suo destino, sfruttandone magari le conseguenze? La riunione del comitato monetario della Fed di martedì e mercoledì prossimi chiamata a sancire la fine ufficiale del terzo ciclo di Quantitative easing ci darà, forse, una risposta.