L’economia dell’area euro è debole, fragile, disomogenea. E, quel che è peggio, la ripresa che pur procedeva a un ritmo moderato, tra il primo e secondo trimestre di quest’anno si è fermata. È un’analisi cupa dell’eurozona quella che emerge dalle parole di Mario Draghi in una Napoli assediata dai manifestanti (“Capisco i motivi della protesta – dice il banchiere – ma va corretta l’idea che la responsabilità sia della Bce”), ma di certo non sorprendente, visto il bollettino della crisi che viene disegnato, giorno dopo giorno, dai dati negativi in arrivo anche dall’area forte dell’Unione europea. Non è questa, perciò, né l’unica, né probabilmente la principale causa dello sconforto dei mercati finanziari, condizionati dalla rabbiosa fuga degli investitori, americani in testa.



A che attribuire questa reazione, particolarmente sensibile a Piazza Affari? “No programme, no party”, scherzava ma non troppo un columnist sul blog del Financial Times. Ovvero, di fronte a una situazione in grave deterioramento, i mercati hanno preso atto che Mario Draghi non può usare l’arma atomica, cioè il Quantitative easing. Per carità, in almeno 4-5 occasioni, il Presidente della Bce ha fatto rifermento nel corso della conferenza stampa a “l’impegno unanime del direttorio a non escludere se necessario il ricorso a misure non convenzionali”. Ma questa formula, ripetuta in ogni circostanza dalla tarda primavera in poi, ha ormai perduto buona parte del suo appeal. Allora poteva apparire come una promessa di svolta da parte della Germania, a fronte delle emergenze geopolitiche, se non di un cambio di rotta ideologico. Da allora, al contrario, si è preso atto che sia il ministro delle Finanze Schaueble che il presidente della Bundesbank Weidmann e, non meno importante, il Collegio della Corte Federale di Karlsruhe, non hanno alcuna intenzione di favorire una politica monetaria più espansiva.



E così l’avvio, già previsto, degli acquisti dei covered bond a metà ottobre, così come il varo delle operazioni sugli Abs, che decolleranno entro la fine dell’anno, non sono interpretati dai mercati come un passo in avanti, in vista di una politica espansiva, bensì come l’ultima concessione che herr Draghi ha strappato a un fronte ostile, per giunta destinato ad arroccarsi su posizioni estreme di fronte allo strappo della Francia sul parametro deficit/Pil.

Certo, può essere un grave errore sottovalutare il valore della mossa della Bce. Tra operazioni Tltro, acquisto di covered bond e Abs (pacchetti di prestiti bancari) la Bce può ora procedere a manovre fino a un massimo di mille miliardi nei prossimi due anni, con l’obiettivo esplicito di far arrivare, attraverso il sistema bancario, questi denari alle imprese, specie piccole e medie. Nonostante l’opposizione della Bundesbank è passata la tesi di estendere l’operazione anche a quei paesi, vedi Grecia e Cipro, che non vantano nemmeno un rating BBB- (purché abbiano in corso programmi con il Fmi o l’Ue).



Questi capitali, purché servano a stimolare il credito, possono essere usati in maniera elastica, non è esclusa la possibilità che le banche attingano al Tltro per finanziare l’operazione restituzione del Tfr ai dipendenti. Insomma, come ha sottolineato Draghi, con queste misure la Bce ha completato la manovra espansiva più imponente della sua storia, portando a termine l’opera avviata con due robusti e storici tagli dei tassi.

Ma proprio qui sta la ragione del malessere dei mercati finanziari. La sensazione è che più in là Draghi non potrà andare per un bel po’. L’orizzonte del piano Abs, due anni, sembra fatta apposta per rinviare il più in là possibile il dibattito sul Quantitative easing. Lo stesso Draghi sembra fermo a metà del guado. A differenza di quanto detto fino a pochi mesi fa, il Presidente ha riconosciuto che esiste un problema di inflazione “core”, che va al di là del calo, benefico, dei prezzi dell’energia o della caduta di quelli alimentari.

La discesa dell’inflazione ha anche un’altra causa, sempre più pressante, ovvero la caduta dell’occupazione e di riflesso della possibilità di spesa dei consumatori. Ma, una volta aggiornata la diagnosi, non si passa a una terapia più robusta. L’inflazione, a medio termine, si riporterà poco sotto il 2%, ritiene il presidente della Bce. Nel frattempo, le speranze di crescita restano affidate a una ripresa delle esportazioni mentre si fa poco o nulla sul fronte della domanda. La Bce continua, al contrario, a raccomandare l’azione sull’offerta, vedi le riforme, particolarmente urgenti in Italia. Con una forte preoccupazione, appena mascherata, di fronte alla presa di posizione di Parigi, che intende rimettere in discussione la fiscal policy predicata da Bruxelles su input di Angela Merkel.

Non è facile capire fin dove arrivino le convinzioni di Draghi e dove, invece, prevalga la necessità di piegarsi alla realpolitik per evitare strappi catastrofici. I margini di manovra con Berlino sono molto ridotti: Angela Merkel deve fare i conti con una destra molto aggressiva, condizionata sempre di più dagli euroscettici. L’industria, intanto, sta accelerando gli investimenti in Usa, favorita dal costo dell’energia (meno della metà). In Francia, la levata di scudi contro l’austerità ha il sapore, tradivo, di una mossa per evitare una disfatta elettorale che potrebbe consegnare Parigi a una maggioranza antieuro. “Capisco l’ostilità della gente – commenta Draghi – ci sono ragioni per nutrire sentimenti antieuro. Ma è ingiusto scaricare sulla monete responsabilità che non ha. La realtà è che certe riforme vanno fatte, il più in fretta possibile. Con o senza l’euro. Anzi, senza la moneta unica tutto sarebbe più difficile e doloroso”.

Difficile però tradurre queste parole di buon senso in un messaggio popolare, con un qualche valore politico. Difficile che ci riesca un banchiere accusato da circoli influenti, se non egemoni, di Berlino di voler trasformare la Bce in una bad bank, pur con operazioni soft, probabilmente insufficienti a raggiungere l’obiettivo di riportare l’Europa sui binari della crescita. Almeno così, con l’abituale brutalità, la pensano i mercati.

Finora le quotazioni dei titoli obbligazionari e delle azioni italiane incorporavano l’attesa di un paracadute rappresentato dai futuri acquisti della banca centrale, in linea con quanto è avvenuto in Usa o in Giappone. Ora questo fattore è venuto meno. E i grandi investitori preparano le valigie, Torneranno, se torneranno, quando rivedranno prezzi stracciati oppure se Francoforte aprirà finalmente il dossier Qe.