Dichiarazioni, annunci e proclami. Tre parole per sintetizzare l’essenza dell’attività politica del Governo, alla ripresa dei lavori dopo la pausa estiva. Con l’avvicinarsi delle scadenze per la presentazione del Def e della Legge di stabilità sarà però fondamentale per il Governo far seguire a questi proclami un piano d’azione concreto e credibile, che certamente non potrà ignorare il tema dei tagli alla spesa pubblica, con la tanto discussa speding review.



A tal proposito, una delle voci di razionalizzazione più consistenti, individuate dal team di lavoro del commissario straordinario Cottarelli, si riferiva al progetto di “disboscamento” della giungla di municipalizzate e partecipate, tema praticamente scomparso dalla discussione politica delle ultime settimane. “Le 8mila aziende municipalizzate italiane sono troppe, dobbiamo ridurle almeno a un ottavo delle attuali. Bisogna riconoscere quando servono e quanto sono il parcheggio per esperienze politiche che non funzionano più”. Pensiero illuminante, quello espresso del Presidente del Consiglio la scorsa estate. Condivisibile, non fosse che, come al solito, tra il dire e il fare… Già a fine agosto le misure sulle municipalizzate e partecipate dovevano inserirsi all’interno del provvedimento “Sblocca Italia”, salvo poi essere stralciate e rinviate a data da destinarsi (si parla della Legge di stabilità).



Ma qual è la reale entità del fenomeno di cui stiamo parlando? E come si è arrivati alla situazione attuale, da più parti giudicata assurda e insostenibile? Per capirne l’entità è utile fare riferimento al “Programma di razionalizzazione delle partecipazioni locali“ stilata dal commissario Cottarelli e dal suo gruppo di lavoro, che contiene numerosi e interessanti spunti di riflessione. Si scopre così che già determinare il numero delle partecipate locali è cosa affatto semplice, in quanto “non si conosce il numero esatto delle partecipate perché non tutte le amministrazioni locali forniscono le informazioni richieste e perché le banche dati esistenti si fermano ad un certo livello di partecipazione (diretta, indiretta di primo livello, eccetera)”.



La banca dati del Dipartimento del Tesoro del Mef su cui si è basato il lavoro di Cottarelli ne censiva 7.726 al 31 dicembre 2012, mentre la banca dati del Dipartimento delle Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio ne comprende circa 10.000. Si tratta comunque di numeri spropositati se confrontati con quelli di altri paesi europei, come la Francia, dove se ne contano circa un migliaio. E la Francia certo non è un Paese in cui la mano pubblica nell’economia è così invisibile. Curioso, fra l’altro, osservare che un numero incredibile di queste società, circa 1.200, hanno solo amministratori e collegi sindacali, ma nessun dipendente. Praticamente dei poltronifici sfacciati e senza alcun pudore.

Scorriamo ora l’elenco dei settori e delle tipologie di attività svolte dalle partecipate censite. Accanto a settori più o meno giustificabili, quali energia, trasporti locali, multiutility e multiservizi, gestione dei rifiuti, troviamo anche studi di architettura, studi di direzione e consulenza aziendale, banche e finanziarie, commercio al dettaglio, gestione terme e, per concludere in bellezza, due enoteche e un prosciuttificio, attività in cui il ruolo pubblico è chiaramente fondamentale e insostituibile.

Il rapporto evidenzia come l’inefficienza delle partecipate, che ricade sul portafogli di tutti noi, può manifestarsi almeno in tre forme: perdite di esercizio palesi, certificate da bilancio e che ammontano a circa 1.200 milioni di euro l’anno; perdite non palesi finanziate da contratti di servizio o ripianate da trasferimenti dallo Stato, stimate in altri 16.500 milioni di euro; inefficienze pagate direttamente dai cittadini attraverso tariffe che ne coprono direttamente i costi. Il regime di monopolio locale assicurato alle partecipate, contribuisce infatti in modo determinante al mantenimento di inefficienze e non assicura alcun tipo di incentivo all’innovazione e al miglioramento del servizio, a scapito dell’intera utenza e della collettività in generale.

Volgendo per un attimo lo sguardo al passato, queste ultime considerazioni dovrebbero essere alla base di una seria e critica riflessione sulla vicenda dei tanto discussi quesiti referendari del 2011 quando, attraverso una ben orchestrata operazione di disinformazione, il referendum è stato camuffato come fosse un quesito sulla “privatizzazione” dell’acqua, mentre in realtà le norme poi abrogate erano relative all’affidamento della gestione non solo dei servizi idrici, ma dei servizi pubblici locali in generale. Esito referendario che ha minato alla base la possibilità di affidare la gestione di questi servizi (e non la proprietà di asset e risorse) tramite gare (alle quali avrebbero potuto concorrere anche enti partecipati o totalmente pubblici), che avrebbero introdotto dei meccanismi di efficienza e di stimolo all’innovazione. Quasi tutti sembrano però ignorarlo, evidentemente perché mantenere l’affidamento diretto da parte dei comuni ed enti locali fa comodo a molti.

Il rapporto Cottarelli consente di inquadrare la dimensione del fenomeno, ne evidenzia gli aspetti più patologici e individua alcuni percorsi da seguire per un’opportuna razionalizzazione del sistema. Starà poi al Governo decidere se e come utilizzare le indicazioni contenute nel rapporto. Occorre però cercare di capire come siamo arrivati alla situazione odierna. Benché negli ultimi anni i governi abbiano più volte proclamato, senza successo, intenzioni di contenere il fenomeno, esso è al contrario proliferato. Forse in parte per eludere i vincoli stringenti del patto di stabilità interno, ma in gran parte per sfamare l’appetito clientelare di un apparato politico sempre più affamato (assumere personale su raccomandazione e inserire parenti e amici nei consigli di amministrazione) e che a partire dagli anni ‘90 si è visto progressivamente sottrarre, grazie ai processi di privatizzazione, la maggior parte delle grandi imprese di Stato con le quali era abituato a “banchettare”, pensando quindi di potersi rifare sul piano locale.

In realtà, nel passato non si è mai cercato di adottare un approccio che fosse veramente di razionalizzazione del sistema e anche quando una municipalizzata veniva costretta a chiudere per palese inutilità o inefficienza, ne venivano aperte altre per ricollocare il personale. Senza contare che a molti di questi enti, col tempo, sono state accorpate attività di dubbia utilità e che un tempo venivano svolte all’interno dei ministeri, accorpandone ovviamente anche i relativi dipendenti.

L’intervento diretto in economia da parte della Pubblica amministrazione tramite le cosiddette municipalizzate partecipate può essere tollerabile, talvolta è necessario, e avviene nella maggior parte dei paesi industrializzati, dove però si perseguono criteri di efficienza e la tutela del bene e degli interessi della collettività. Le partecipate non possono e non devono essere centri di potere politico e la proprietà pubblica non deve diventare la scusa per garantire sacche di inefficienza, mancata innovazione, lassismo o ingiusti privilegi per dirigenti e dipendenti.

Quando questo si verifica, a rimetterci sono i cittadini, soprattutto le fasce più deboli, obbligate a farsi carico delle inefficienze del sistema e dei maggiori costi di tariffe e servizi. I cittadini ovviamente desiderano avere i servizi migliori al costo più basso, mentre invece le partecipate tendono spesso a operare una distorsione delle loro finalità e a riflettere più le logiche e gli interessi della politica, fra tutti quello di mantenere il consenso, piuttosto che rispondere a criteri di efficienza e trasparenza.

Per rispondere alle esigenze di razionalizzare del sistema, il rapporto Cottarelli affronta quattro punti fondamentali, proponendo di: circoscrivere il campo d’azione delle società entro lo stretto perimetro dei compiti istituzionali; introdurre vincoli diretti sulle forme di partecipazione; fare ampio ricorso alla trasparenza; promuovere l’efficienza attraverso l’uso dei costi standard e favorire l’aggregazione degli enti.

Il piano d’azione è certamente ambizioso e implica decisioni localmente impopolari e che possono avere un impatto sociale non trascurabile nel breve termine. Tradotto in politichese, questo significa ripercussioni sul gradimento del Governo e consenso elettorale a rischio. Che siano queste le reali motivazioni per cui il tema è stato eliminato dal tavolo delle discussioni più urgenti? Eppure le risorse recuperabili in termini di razionalizzazione e riduzione delle inefficienze sono considerevoli.

Al di là dei proclami e delle buone intenzioni, il dubbio è che su questo, come su altri temi, passando dalla teoria alla pratica il Governo si dimentichi la situazione di drammatica urgenza in cui si trova il Paese e riversi la sua attenzione su opportunistici calcoli elettorali. Attendiamo con impazienza di vedere se il Presidente del Consiglio questa volta sarà in grado di stupirci.

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