Una clausola “tagliola” che prevede un aumento delle aliquote Iva e delle altre imposte indirette se il deficit dovesse aumentare. È la “sorpresa” contenuta nella nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (Def) che anticipa quanto contenuto nella Legge di stabilità 2015. Se la clausola “tagliola” dovesse scattare, il gettito aumenterebbe di 12,4 miliardi di euro nel 2016, di 17,8 miliardi nel 2017 e di 21,4 miliardi nel 2018. La conseguenza sarebbe però di generare una perdita di Pil pari allo 0,7% e una contrazione di consumi e investimenti dell’1,3%. Ne abbiamo parlato con Ugo Arrigo, professore di Finanza pubblica all’Università di Milano-Bicocca.



Non trova che la clausola contenuta nella nota al Def sia quantomeno paradossale?

La clausola “tagliola” ha lo scopo di rassicurare i rigoristi, ma se entrasse in funzione creerebbe ancora più recessione. È quindi sbagliata come approccio, perché un eventuale sforamento dei conti pubblici sarebbe determinato da una minore crescita e quindi da un minor gettito fiscale. Aumentare le aliquote creerebbe un circolo vizioso, perché significherebbe ancora meno crescita.



Lei che cosa avrebbe fatto?

Anziché sulle tasse, la clausola tagliola l’avrei messa sulla spesa. Per esempio, avrei previsto che in caso di sforamento le pensioni al di sopra dei mille euro al mese si abbassano di una determinata percentuale. Si poteva addirittura farlo in modo parametrato, stabilendo di abbassare le pensioni di una certa percentuale in base all’entità dello sforamento.

Quali sarebbero gli effetti della sua proposta?

Il principale effetto sarebbe quello di costituire un ottimo deterrente rispetto al superamento della soglia di deficit. Mi domando nel frattempo che fine abbia fatto la spending review. Se fosse stata attuata a fondo, poteva rappresentare una garanzia molto più efficace. Non dimentichiamoci che l’Iva è già stata alzata al 22%, eppure questo innalzamento non ha prodotto nessun gettito, bensì ulteriore recessione.



L’aumento dell’Iva farebbe calare il Pil dello 0,7%. Con quali conseguenze?

Se il Pil si contrae dello 0,7%, si perdono più di 10 miliardi di Pil sui quali si perdono 5 miliardi di gettito, e quindi i 12 miliardi di euro di gettito si riducono a 7. Ormai le aliquote hanno un’elasticità che nell’ipotesi migliore è unitaria. Se si aumentano le aliquote del 10%, l’imponibile cala in eguale misura e il gettito non aumenta. Siamo arrivati a un punto in cui qualsiasi aumento millimetrico delle aliquote fa calare l’imponibile, con l’unica eccezione delle imposte patrimoniali che hanno un imponibile non verificabile. È quindi del tutto inutile alzare le tasse.

 

La Francia ha annunciato che non rispetterà il 3% né nel 2014, né nel 2015, né nel 2016. Anche l’Italia dovrebbe fare altrettanto?

Se avessimo il debito pubblico della Francia, risponderei di sì. Avendo un debito pubblico molto più ampio, non ce lo possiamo permettere e quindi non possiamo assolutamente sforare il 3%. Il rischio per l’Italia sarebbe un ritorno al panico finanziario del 2011, determinato da una percezione dell’Italia come Paese poco credibile. Dobbiamo quindi prendere atto del fatto che tutti gli interventi compiuti nel 2011 e nel 2012 sulla scia della spinta rigorista è stato fuori luogo e non ha prodotto nessun miglioramento rilevante.

 

Qual è l’errore di fondo dell’impostazione rigorista?

L’errore consiste nel tentativo di mettere a posto il bilancio pubblico indipendentemente dall’economia, cioè di pensare che il gettito fiscale sia uno scenario indipendente rispetto allo scenario economico. Il gettito fiscale è uno “stato secondario” che non si può perseguire direttamente. Ciò che si può fare è perseguire una corretta gestione della macchina pubblica o un corretto percorso economico, e allora come risultato secondario indiretto si hanno anche i conti pubblici fiscali in ordine. Se al contrario lo si persegue direttamente si fallisce il proprio obiettivo.

 

(Pietro Vernizzi)