“L’Italia sta facendo cambiamenti importanti, ora bisogna vedere se le riforme saranno attuate”. Lo ha detto il vicepresidente della Commissione Ue, Jyrki Katainen, che ha poi aggiunto che “il fatto che non abbia riscontrato serie deviazioni dalle regole del Patto, non significa che i piani lo rispettano appieno, non pregiudica la nostra analisi finale e non esclude che la Commissione possa adottare procedure nell’ambito del Patto”. Insomma, è ancora presto per dire che la nostra Legge di stabilità per il 2015 abbia superato pienamente l’esame della Commissione Ue. Ne abbiamo parlato con Mario Deaglio, professore di Economia internazionale all’Università di Torino.



Quali sono le riforme necessarie all’Italia cui si riferisce Katainen?

Katainen stabilisce una visione pubblica di grande severità, cogliendo l’occasione per richiamare Italia e Francia sulle loro vere o presunte mancanze. In realtà, “bisogna fare le riforme” è diventato quasi un mantra. Poi quali siano le riforme da fare rimane quasi sempre nel vago. In genere le riforme che l’Ue vuole vedere sono quelle che consentono il miglioramento dei conti pubblici, e non si interessa di altro. Ciò vuol dire innanzitutto riforme che diano minori spese, aumentando l’efficienza della spesa pubblica a parità di servizi.



Per l’Ue andrebbero privilegiate maggiori tasse o minori spese?

Sicuramente minori spese, perché Bruxelles si rende conto che maggiori tasse potrebbero essere controproducenti in quanto potrebbero avvitare l’economia in una nuova crisi. Per quanto riguarda le minori spese, una parte del miglioramento può essere dedicata al fatto di stimolare l’economia.

Tagliare le spese non rischia a sua volta di produrre un effetto negativo sul Pil?

Sicuramente sì. Occorre che il taglio della spesa pubblica sia accompagnato da un intervento che compensi il vuoto di domanda che questo comporta. Per esempio, il taglio della spesa andrebbe accompagnato da minori tasse.



Per quanto riguarda le privatizzazioni, che cosa si aspetta l’Ue dall’Italia?

L’Ue come tale certamente non preme perché sia privatizzata una società o un settore italiano in particolare. I mercati invece si aspettano che l’Italia metta mano ai grandi servizi pubblici, partendo da Ferrovie e Poste. L’Eni d’altra parte è una società parzialmente pubblica, ma che sarebbe molto interessante per i mercati. C’è poi tutta la selva degli enti locali, un settore in cui ci sono 7mila aziende pubbliche mentre ne basterebbero mille, ma che dopo quest’opera di risanamento potrebbero essere messe sul mercato.

Quale riforma andrebbe introdotta nel settore bancario?

Le banche sono già sottoposte a regole Ue molto stringenti, basterebbe quindi rispettarle. Per il resto gli istituti di credito sono delle cinghie di trasmissione e come tali non possono facilmente stimolare un’economia che non riparte da sola. Se non ci sono condizioni buone, le banche non fanno credito. Anche se proprio ieri abbiamo registrato i primi dati positivi dall’inizio della crisi per quanto riguarda i prestiti a chi compra delle case.

 

La riforma dell’articolo 18 ci metterà in una luce diversa agli occhi dell’Europa?

Le imprese straniere sono interessate a venire in Italia per investire in un quadro normativo simile a quello degli altri Paesi. Che si modifichi o meno l’articolo 18 a loro interessa relativamente poco, conta molto di più il complesso delle norme. Dai permessi per i vigili del fuoco all’anti-infortunistica, l’Italia deve essere sostanzialmente simile agli altri Paesi. Se questo non c’è difficilmente le imprese straniere verranno in Italia.

 

Infine, che cosa va fatto per quanto riguarda i cofinanziamenti Ue?

C’è una riforma specifica che l’Ue dovrebbe chiedere all’Italia, e che vista da Bruxelles sarebbe di estrema importanza. Si tratta di modificare le norme italiane che regolano le modalità attraverso cui l’Italia chiede l’assegnazione dei fondi Ue. Il nostro Paese spesso non riesce a presentare le richieste in tempo, o quando lo fa si tratta di domande improponibili perché manca una parte della documentazione. Questa è una perdita netta per il Paese, per un valore che supera i 10 miliardi l’anno.

 

(Pietro Vernizzi)