Sono passati 25 anni dalla caduta del muro di Berlino, 23 dalla dissoluzione dell’Urss e 21 dalla distruzione per mano delle forze croate del ponte di Mostar in Jugoslavia. Per l’Italia sono passati 22 anni dall’eliminazione per via giudiziaria, come ha recentemente scritto nel suo libro Sergio Berlinguer, di un’intera classe dirigente che aveva portato l’Italia dalle macerie delle guerre al benessere diffuso e democratico. Chi scrive ha l’età per ricordare da giovane adulto quegli anni così drammatici di mutazione strutturale. Né il mantenimento del muro, né la cinica distruzione del ponte, né il rimpianto della Prima repubblica italiana possono trovare un senso oggi, nell’oggi e nel domani, ma nella storia certamente hanno lasciato un segno profondo.
Diversamente da certi giovani nichilisti premiati del potere di governo per la loro spregiudicata (in)capacità, e di numerosi opportunisti anziani, noi non crediamo che “il futuro comincia adesso”. Infatti, benché opinatamente critici, la lettura del presente ci fa concludere che il problema dell’euro, come la sua natura, è principalmente politico. Le declinazioni degli economisti sulla ragionieristica contabilità degli stati, per esempio la ben nota retorica terrorizzante sul rapporto tra deficit e Pil oppure tra debito pubblico e sostenibilità economica, sono assolutamente astratte. Gli stati non falliscono, tranne quando sono distrutti manu militari. Gli esempi non mancano. Come dicevamo, l’euro che esiste deve solo essere stabile e il suo valore certo, così come lo è stato il marco tedesco dopo il 1945.
Nel contesto mondiale di oggi siamo al bordo del tracollo del sistema che da circa un secolo è stato chiamato “americano”. Tra nuove “Guerre molto fredde”, come ha commentato l’ex senatore americano Ron Paul sul libro di Marin Katusa, tra accordi “nucleari” per salvare la faccia (e per bisogno) con l’Iran, con la riapparizione espansiva di stati nei quali s’inverte la secolare separazione e laicizzazione dei poteri civili rispetto a quelli religiosi, con l’inversione dei flussi di ricchezza da Ovest verso Est, e con una situazione ambientale deprecabile, le manieristiche abitudini europee sembrano assolutamente fuori tempo. Eppure, è la ricchezza dell’Europa, che rapacemente ha accumulato negli ultimi quattro secoli, che ne eviterà la distruzione.
Infatti, il progetto politico europeo, certamente quello integrazionista post-guerra e quello unitario post-89, si è concretizzato in una moneta, l’euro, che è un valore rifugio tanto per gli Usa, che l’avevano progettata, ma anche per gli asiatici, gli indiani e gli africani. Ciò che di europeo è stato sconfitto, e si sta smantellando, è l’idea francese funzionalista o istituzionale durata dal 1985 al 1997, con l’epoca del socialista Delors. L’Europa è la sua moneta, che ha valore perché nell’insieme l’accumulazione di ricchezza europea è anche misurabile dalla quantità d’oro depositato, che, cumulativamente anche con Londra, è di un terzo in più degli Usa e più del doppio della Cina. Questo spiega il peso di Londra nelle decisioni europee e nel braccio di ferro con la Germania.
Mentre il fallimento politico dell’euro, e dell’Europa, è possibile perché abbiamo dei mediocri rappresentanti eletti dai popoli europei, l’euro in quanto moneta non soffre affatto. Le chiacchiere degli economisti sono strumentali, e molto spesso inconsapevoli, per rafforzare l’euro stesso. Infatti, la banca centrale americana (Fed) ha una leva finanziaria di 77:1 (come si vede nel grafico a fondo pagina), mentre quella europea (Bce) è inferiore a 5:1. Il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha una leva finanziaria di 3:1. Questo è il risultato del Quantitative easing che ha salvato il sistema finanziario e bancario del dollaro per evitare il tracollo nel 1998, 2000, 2007 e 2010.
D’altra parte la moneta europea era stata pensata dagli americani proprio come “rifugio” della ricchezza che negli Usa è troppo esposta sia agli enormi costi della gestione della sicurezza dell’ordine mondiale, sia agli eccessi strutturali del sistema economico interno. Tale deve restare: una grande Svizzera dove si “parcheggia” la ricchezza depositata in sicurezza. A questo serve il debito pubblico degli stati europei. Chi parla di crescita non dice la verità, oppure ignora questa realtà.
Spingere sul piano della crescita in Europa, cioè avviare quelle politiche che gli economisti chiamano keynesiane o espansive, è politicamente non dato. Questo è il vero segreto del Trattato di Maastricht che gli Usa hanno subappaltato alla Germania – che in cambio ha preteso la riunificazione e l’egemonia in Europa – e al Regno Unito che controlla la Germania e l’eurozona. Quindi, se si vuole evitare di sfasciare la costruzione europea rianimando i sentimenti della competizione egemonica che avevano portato il continente in briciole, si deve dire la verità: l’Europa non può crescere ma può ridurre gli sprechi e continuare a essere un luogo “addormentato” di comune e diffuso benessere. Le velleità di politica estera, di sicurezza e difesa, non sono permesse e infatti sono state lasciate volutamente ambigue nell’ultimo trattato europeo di Lisbona. E su questo punto sono tutti d’accordo: Usa, Russia e Cina.
Nonostante le apparenze, il Ttip – l’accordo che Renzi e Mogherini hanno definito “strategico e culturale, più che commerciale” – conviene a tutti. Nessuno è in grado di gestire l’Europa, sarebbe troppo costoso. Così la Russia ha virato a Est, facendo ulteriori accordi commerciali e valutari con la Cina, e presto si aggiungeranno anche l’Iran, l’India e forse la Turchia. D’altra parte, i principali creditori degli Usa, cioè Cina e Arabia Saudita – che insieme detengono circa l’80% del debito americano, la prima acquistando i T-bonds e la seconda finanziando l’America con i petrodollari -, hanno interesse a mantenere in vita il debitore, lasciandogli l’Europa che pagherà anche per l’alleato atlantico. I rullii di guerra, come recentemente ribadito anche da Gorbaciov, sono semplici tattiche che servono a giustificare quanto abbiamo appena detto.
Ciò non esclude il pericolo di errori nella gestione tattica – il caso dell’Ucraina e quello dell’Isis sono emblematici – che possano far scivolare involontariamente il progetto “politico” nel caos e finanche nella guerra. C’è da applicarsi tutti perché ciò non avvenga e perché, nonostante l’evidente declino del dollaro come moneta mondiale (negli ultimi 10 anni il volume di biglietti verdi usato negli scambi mondiali è sceso dal 70% al 60%, come si può vedere nel grafico qui sotto), non si agitino forze levantine che cerchino di ristabilirne l’egemonia con l’uso della forza.
Una soluzione potrebbe essere un’iniziativa europea per chiedere al Fmi di attivare la sua “pressa monetaria” tramite l’emissione dei cds – “una moneta contabile quasi virtuale” – che assorbano tutti i debiti pubblici mondiali, americani inclusi. La Cina e la Russia potrebbero accettarlo, ma qualche fetta di potere nella gestione dell’ordine mondiale si dovrà pur cederla in cambio.
(2- fine)
(I grafici sono tratti dalla presentazione del libro di Jim Rickards “The death of money”)