Ci risiamo con la storia del referendum sulla uscita dall’euro, proposto da Beppe Grillo. Per carità, bisogna dire che ogni iniziativa che contribuisca a porre il problema è benvenuta. Ma la questione del referendum pone ben altri quesiti. Innanzitutto, a che serve un referendum che può essere (eventualmente) solo propositivo, in Italia? Abbiamo già visto in numerose occasioni passate come la politica si sia fatta beffe della volontà popolare. E questo nella migliore delle ipotesi, cioè in quello di una vittoria di chi vuole uscire dall’euro. Possiamo essere ottimisti sul risultato, anche perché un tale referendum potrebbe svolgersi concretamente la prossima primavera, cioè quando una fetta consistente di italiani potrebbe essere convinto dall’aggravarsi della crisi.
Ora due ostacoli non indifferenti si pongono sulla strada di una vittoria di un simile referendum, poiché occorre tener conto che il referendum non sarebbe proposto da un soggetto neutro, ma da un partito politico. Il primo ostacolo è quello di ritrovarsi tutti i partiti contro, anche quelli favorevoli all’uscita dall’euro (Lega e Fratelli d’Italia). Infatti, loro propongono l’uscita dall’euro, non il referendum. Così scatterà la demonizzazione politica e mediatica del M5S. Al di là di quanto questo sarebbe giusto o sbagliato, non sarà utile alla reale uscita dall’euro.
Voglio dire che non ci serve un referendum per uscire: dobbiamo uscire dall’euro. E avendo l’evidenza che nessun partito tra i maggiori ha in programma di farlo davvero, dobbiamo farlo noi, tramite le nostre comunità locali, istituendo sistemi locali di Moneta complementare. Dobbiamo attuarla concretamente, in attesa che la politica si accorga della realtà, per preservare l’economia reale, quella che produce il pane quotidiano per tanti di noi.
Intanto un’interrogazione di un parlamentare europeo della Lega mette in luce una cosa già nota dai tempi della crisi di Cipro: il piano di salvataggio per le banche consiste nella banalità attuata già con il caso della crisi cipriota, cioè blocco dei conti correnti (limitazione dei prelievi giornalieri). Questo è il piano che potrà riguardare anche noi italiani, in caso di una crisi del nostro sistema bancario. Anche se il nostro sistema bancario è relativamente solido (ricordiamo il caso della Deutsche Bank, colosso tedesco esposto sui derivati per la somma stratosferica di circa 54 mila miliardi, cioè circa venti volte il Pil della Germania, pari a circa 2,7 mila miliardi) è pure vero che se sottoposto a un massiccio attacco speculativo e senza una qualche difesa della Bce sarebbe travolto.
E una difesa della Bce porterebbe probabilmente a un costo politico troppo pesante da subire. Ma anche senza pensare a un complotto o un attacco contro l’Italia, il sistema finanziario continua a scricchiolare paurosamente. Le banche Usa sono tornate a prestare un fiume di carte di credito a persone con merito creditizio piuttosto dubbio. Dall’inizio dell’anno fino allo scorso luglio, le banche hanno di fatto erogato carte di credito a 9,8 milioni di consumatori subprime; la cifra è il record degli ultimi sei anni e costituisce un aumento del 43% su base annua.
Siamo punto a capo, siamo alla situazione precedente allo scoppio della crisi del 2007. Con la differenza che le banche centrali hanno già sparato le proprie cartucce. Prima o poi occorrerà vedere le carte e il dato evidente è che hanno bleffato tutti, a partire da Draghi e dal suo celebre “whatever it takes”. Come ho già detto, quel “a tutti i costi” di Draghi vuol dire che quei costi li pagheremo noi. C’è di mezzo una questione numerica, perché quel costo non saremo mai in grado di pagarlo (e quindi diventerà un costo politico, cioè una schiavitù conseguente alla perdita di sovranità). Ma c’è di mezzo soprattutto una questione morale. Perché la schiavitù è stata abolita da un pezzo.
Per questo abbiamo il dovere di uscire dalla trappola della moneta unica. Senza fare referendum, perché la libertà di un popolo non è da mettere ai voti.