In questi giorni si sono ascoltati e letti molti commenti sugli stress test e posso quindi dare per scontati molti aspetti che riguardano le valutazioni generali e sulle nostre banche. Voglio qui riportare alcune riflessioni “a freddo”, maturate anche in seguito alle molte cose che si sono, appunto, dette o scritte.



Una prima considerazione riguarda la sorpresa di avere trovato una nostra banca (la più antica del mondo, fra l’altro, ovvero il Monte dei Paschi) in cima all’elenco dei cattivi e con una carenza di capitale piuttosto consistente. Francamente mi sarei aspettato una maggiore tutela della nostra reputazione da parte dei nostri rappresentanti in seno ai vari organismi che sono stati coinvolti nel comprehensive assessment: Commissione europea, Bce, Eba, ecc. Si badi, non intendo invocare una qualsivoglia benevolenza! Soltanto accertarsi che anche nei confronti di quella banca fossero adottati gli accorgimenti che si sono adottati per casi analoghi, di banche cioè che avevano già avviato, col consenso della Commissione europea, procedimenti di ristrutturazione finanziaria; da quel che si legge, la Commerzbank, la seconda banca tedesca per dimensione, avendo avviato il processo di ristrutturazione entro la fine del 2013, ha potuto godere del beneficio di un’analisi dei bilanci condotta secondo principi non statici ma dinamici, dunque più morbidi; e non è l’unico caso. È lecito attendersi che se si fosse adottato lo stesso criterio nel caso del Monte dei Paschi il giudizio finale sarebbe stato certamente meno severo!



Una seconda considerazione riguarda gli aiuti di Stato o di sistema (organismi sovranazionali), quegli interventi cioè che hanno consentito in tutti i paesi, a partire da quelli “virtuosi”, di salvaguardare la stabilità delle banche maggiormente compromesse dalla crisi finanziaria globale. In tutti i paesi europei sono state utilizzate risorse pubbliche molto consistenti per evitare il fallimento e sostenere il capitale delle banche (dai 247 miliardi della Germania ai 136 del Regno Unito, solo per ricordare i più rilevanti, fino a giungere ai 48 dell’Irlanda, che però rappresentano il 40% del Pil di quel Paese!); ebbene, in Italia, gli interventi pubblici (o di sistema) in favore delle banche in crisi, sono stati praticamente nulli (4 miliardi circa, per giunta quasi totalmente restituiti, lo 0,2% del Pil) e gli sforzi che si sono comunque realizzati per irrobustire il sistema bancario sono stati sostenuti esclusivamente dal mercato. Perché non tenerne conto nell’esame appena concluso?



Se soltanto il nostro bilancio pubblico lo avesse consentito, anche per noi ci sarebbe stata la possibilità di passare indenni dalle forche della Bce! In questo senso si può dire che le bocciature (shortfall di capitale), non solo in seguito allo stress test (Monte dei Paschi e Carige) ma anche dopo l’esame della qualità degli attivi (altre 7 banche italiane, fra le quali le maggiori popolari a eccezione di Ubi), sono il riflesso anche e soprattutto del difficile momento che sta vivendo il Paese, sia per quel che riguarda la finanza pubblica, sia per quel che riguarda la situazione finanziaria dei debitori (imprese e famiglie), dopo tre anni di recessione.

Per completezza, fra gli aiuti di Stato bisogna anche considerare la “forza di esclusione”: la Germania ha ottenuto di tenere fuori dagli esami della Bce le banche regionali sulle quali si concentrano grossi sospetti di shortfall. Evidentemente, c’è chi può!

Una terza considerazione riguarda l’impianto generale sia della valutazione della qualità degli attivi, sia dell’impatto di scenari avversi, che, alla luce dei risultati, appare quanto meno “incompleto” o, meglio, da rivedere. Detto impianto è più incentrato sulla valutazione dei portafogli di prestiti e, ci pare, meno rivolto alla valutazione degli investimenti finanziari: per intenderci, gli investimenti in titoli non di Stato, fra i quali vanno compresi i derivati. Questo impianto, se da un lato ha il pregio di avere favorito un’omogeneizzazione dei criteri per la valutazione dei prestiti, dall’altro, per le oggettive difficoltà dell’omogeneizzazione dei criteri di valutazione di attività finanziarie per loro natura “opache”, finisce per penalizzare (per eccesso di rigore) le strutture patrimoniali delle banche che fanno maggiormente il loro vero mestiere che è quello della concessione dei prestiti!

Detto in altri termini, le banche che sostengono l’economia coi prestiti sono penalizzate rispetto alle banche che fanno principalmente finanza. Il semplice confronto fra le composizioni dei portafogli della banche fa capire la differente esposizione al peggioramento della congiuntura: per le banche italiane su 100 euro di impieghi 56 sono prestiti contro 30 delle banche tedesche, 36 di quelle francesi e 44 di quelle britanniche; i derivati invece sono, rispettivamente circa 6 per le italiane, 27 per le tedesche e 16 per le francesi. Il peggioramento della congiuntura, così come ipotizzato (per l’Italia una recessione che dura 5 anni e una contrazione del Pil di 12 punti), si riflette esclusivamente sulla qualità dei prestiti e dunque tende ad accrescere il fabbisogno di capitale proprio. Senza contare poi che i titoli cosiddetti “tossici”, quelli per i quali è impossibile misurare il rischio e che non hanno valore di mercato, ammontano al 48% del patrimonio tangibile in Germania e al 27% in Francia, contro il 16% in Italia.

Risultato: fare prestiti richiede più capitale rispetto a fare finanza; fare prestito in Italia risulta ancora più costoso (in termini di capitale) perché bisogna scontare anche il “rischio Paese”. Tutto da rifare dunque? Certamente no, è solo che non bisogna fermarsi a valutazioni superficiali. Nel nostro caso, a fronte di situazioni già note e che sono in una fase di attenta ristrutturazione, vi sono importanti conferme (Banca Intesa, Unicredit e Ubi) e la certezza di trovarsi di fronte a un sistema bancario che nella sua stragrande maggioranza non soltanto è solido, ma che ha fatto, anche grazie a questo processo di valutazione, una cura intensiva di aggiustamenti e affinamenti (sia sotto il profilo delle gestione che sotto quello della governance), dalla quale emerge sempre più chiaramente come non contino tanto le dimensioni ma assai di più le competenze; non conta una capillare articolazione territoriale ma una più razionale distribuzione con canali adeguati; non conta aumentare di continuo gli aggregati di bilancio ma saper misurare i rischi e non cedere alla tentazione di scaricarli sulla clientela, soprattutto quella debole, come pure è capitato! Non conta tanto garantirsi con cespiti di qualsivoglia natura quanto saper valutare la bontà delle singole iniziative imprenditoriali.

Insomma, una cura intensiva che ci ha fatto maturare; dunque ben vengano questi esami, anche a costo di confronti ingenerosi e talvolta distorti, ma proprio per questo perfettibili, che comunque ci avvicinano a una nuova stagione, quella dell’Unione bancaria, che speriamo sia la premessa di un ulteriore, importante avanzamento verso un mercato veramente unico.