Nel mondo si misura in 580 milioni di tonnellate la sovraccapacità produttiva nell’industria dell’acciaio. 80 milioni in Europa. A Terni, nelle acciaierie, per ridurre i costi di tal garbuglio tagliano di 100 milioni l’anno i costi. 537 di quelli che lavorano vanno in sovrappiù, per gli altri riduzioni di stipendio. Lo scorso 18 ottobre pressappoco 113.000 ternani reagiscono, 30.000 vanno in piazza. Manifestano solidarietà e pure un po’ di interesse, anzi molto, per quelli che mancheranno di portare i soldi a casa e per quelli che ne porteranno meno. In piazza ci stanno pure quelli che non venderanno a chi ha perso il lavoro o venderanno meno a quelli che guadagneranno meno. Già, ci stanno, e pure in cagnesco perché scorgono un domani gramo: senza lavoro anch’essi.
Fanno scongiuri insomma fabbricanti, commercianti, artigiani, professionisti, persino le banche che vedranno deteriorarsi i loro crediti. Stretti di chiappe, su un lato della piazza, ci stanno pure tutti quelli dell’indotto. Una reazione a catena, di sovraccapacità in sovraccapacità, che costa e non fa guadagnare; per quelli del prelievo fiscale, che a Terni hanno rappresentanza, solo spiccioli.
Brrrrrrrrrrrr, fa freddo! Per riparare il danno quelli al Governo nazionale sembrano muoversi tra opzioni lasche, spazi stretti e tempi lunghi. Beh, intanto ai ternani per non restare intirizziti nell’attesa tocca muoversi.
Le politiche keynesiane, quand’anche efficaci, fatte a debito non sono spendibili. Fomentare impresa invece, a costo quasi zero, guadagnando un ricostituente fiscale si può: per quei 537 si possono spendere 73,5 ettari [] di terreno agricolo demaniale dato in comodato d’uso da Comune, Provincia e Regione. C’è bisogno degli utensili per coltivare? Beh… tocca alle imprese investirci per dare sprone a quei senza lavoro che hanno smesso di fare la domanda. Se poi viene assunto pure “quel modello produttivo agricolo italiano, primo per produzione di valore aggiunto” il gioco è fatto.
Se tornano a lavorare, con il surplus che se ne trae, si fa reddito buono per fare la spesa. Se tanto dà tanto si può fare, anzi occorre farlo! Occorre fare pure altro però per quel lavoro che quando c’è remunera poco, pressappoco quel-che-serve-per-vivere, facendo mancare la capacità di acquistare quanto prodotto. Sì perché così conciati si va ramenghi in sovrappiù. Tutti! Se l’impresa paga il lavoro quanto può per tenere arzilla la produttività, può fare ancora meglio abbassando i prezzi per alleggerire i costi della sovraccapacità, recuperando pure capacità competitiva. “Bonus” insomma, buoni per rifocillare quel potere d’acquisto di chi acquista poco, per far acquistare il resto. Così si possono pareggiare i conti e tutti insieme tornare a fare.
[1] Quelli del Dossier di Coldiretti con Symbola, Unioncamere e Fondazione Edison consideranoilmodello produttivo agricolo italiano primo per produzione di valore aggiunto. Viene stimato triplo rispetto a Regno Unito, doppio rispetto a Spagna e Germania, superiore del 70% a quello francese. In questo settore l’Italia è prima anche per addetti occupati, con 7,3 addetti per ettaro, a fronte di una media europea di 6,6 addetti.
Già, nell’economia dei consumi funziona così: occorre spendere per poter lavorare. Così i negozianti possono smettere di oziare, i progettisti tornare ad architettare e ingegnare per muratori che tornano a murare con i manovali a dare una mano. Pure i taxi a girare, le agenzie ad agire servizi, gli agenti a fare la guardia. Persino Maurizio, non più solo soletto, può tornare a dare lezioni di chitarra, mentre quelli all’angolo della piazza a rilassare le tensioni muscolari. Bizzarro eh?