Shinzo Abe, il primo ministro giapponese, non se lo aspettava. Anzi, a dire il vero, non se lo aspettava nessuno. Il Prodotto interno lordo del Sol Levante, dopo sei trimestri di crescita consecutiva, è sceso negli ultimi tre mesi dello 0,4%. Il Giappone è entrato, ufficialmente, in recessione (è l’unico tra i paesi del G-7 insieme all’Italia). Le misure economiche che erano già in calendario sono state bloccate, Abe ha rimesso il mandato, nonostante una maggioranza schiacciante nella Camera Bassa, e Tokio andrà a nuove elezioni a metà dicembre.
Tutti gli analisti sono concordi nell’affermare che l’errore di Abe è stato aumentare in aprile l’Iva dal 5% all’8%, ma il premier ha sbagliato anche a non considerare che l’unico modo serio per alimentare in modo continuo la crescita di un Paese è mettere soldi nelle tasche dei suoi cittadini e soprattutto assicurare che li avranno anche in futuro. Inondare di liquidità il mercato serve a far fare grandi affari alle banche, far scendere a precipizio lo yen rispetto alle altre valute, serve a mettere in condizioni le aziende a esportare di più, gli investimenti in infrastrutture e nuovi servizi muovono interessi che sempre di più sono sovrannazionali e le riforme, spesso, come in Italia, rischiano di provocare un effetto opposto. Nessuna di queste misure assicura automaticamente un solo posto di lavoro in più. Dovrebbe essere una conseguenza logica, ma così non è. O almeno non lo è più.
L’economia di un Paese si basa, invece e soprattutto, sulla capacità di spesa dei suoi abitanti che cresce se aumentano le retribuzioni, l’occupazione e le speranze di un futuro migliore. L’economia cresce quando un operaio trova in busta paga un sostanzioso aumento contrattuale, quando un commerciante vede entrare più gente nel proprio negozio, quando si compra un elettrodomestico o si spendono soldi per un regalo. E non c’è politica monetaria ed economica che funzioni se i cittadini di un Paese non trovano lavoro o hanno paura di perderlo, se gli imprenditori non se la sentono di rischiare un’assunzione o un investimento a medio termine. La crisi alimenta la crisi. Chi può risparmia, chi non può rinuncia a qualcosa, tutti finiscono per stare peggio.
Abe, in un Paese fermo da anni, ha messo in campo una serie di misure economiche che sono passate sulle teste dei cittadini senza migliorarne la vita e poi ha detto ai giapponesi che le imposte sui consumi sarebbero raddoppiate. Conseguenza logica: un boom degli acquisti che ha spinto il Pil prima dell’aumento della tassazione e un successivo raffreddamento dei consumi che ha portato alla recessione. Non ci voleva un master per capirlo, bastava chiederlo a una massaia: preferisce comprare il nuovo frigorifero adesso o farlo tra qualche mese e pagarlo il 5% in più?
Ora ci saranno nuove elezioni, Abe probabilmente vincerà ancora perché le alternative (anche in Giappone) sono scarse, e l’aumento dell’Iva del 2% è stato bloccato in questi giorni. L’economia giapponese soffrirà ancora in attesa che gli investimenti pubblici creino nuovi posti di lavoro o che ritornino in Patria, e siano distribuiti anche ai dipendenti, i guadagni delle esportazioni spinte dallo yen debole. Cosa che una volta sarebbe stata logica, naturale, ma che oggi non è detto accada.
Ogni riferimento all’Italia è puramente casuale e non voluto.