Nel dibattito che ha preceduto l’approvazione della riforma Fornero – che per la prima volta metteva mano all’articolo 18 introducendo la possibilità di indennizzare, invece che reintegrare, in caso di licenziamento economico ritenuto illegittimo dal Giudice – in modo molto furbo qualche autorevole voce sindacale aveva introdotto la dicitura “modello tedesco”, riferendosi al fatto che anche in Germania è previsto il reintegro in caso di licenziamento illegittimo.
Ciò è vero, in Germania la normativa sui licenziamenti individuali è regolamentata nel Kündigungsschutzgesetz (il cosiddetto Employment protection act) introdotta nel 1951, rivista sostanzialmente nel 1966, e successivamente riformata fino all’ultima versione del 2008 (che ha introdotto la soglia di applicazione della legge passando da imprese con più di 5 dipendenti a imprese con più di 10 dipendenti). Secondo tale normativa, il datore di lavoro, nel caso in cui il Giudice (Arbeitsgericht) abbia valutato il recesso come illegittimo, dovrà reintegrare il lavoratore, salvo facoltà per il Giudice stesso (e applicata nella stragrande maggioranza dei casi concreti) di verificare caso per caso che questo non turbi gli equilibri economici e sociali dell’impresa (in tal senso è onere dell’impresa dimostrare che il reintegro non sarebbe praticabile: per mancanza di utilità in azienda, ovvero per una mancanza di possibilità di ricostruire il rapporto tra datore di lavoro e dipendente): in tal caso il reintegro sarà sostituito da un’indennità da 12 a 18 mensilità.
A parte che il reintegro non è quindi coatto ed è grandemente frequente l’uso dell’indennizzo, va rilevato che in Germania il sistema produttivo è completamente diverso (molto presente la grande impresa, in Italia il 98% è fatto di Pmi) e che, in secondo luogo, le stesse relazioni sindacali sono molto più partecipative che da noi. Per non parlare, come si evince, di un Tribunale del lavoro più efficiente e più rispettoso dei valori dell’impresa. Quando furbescamente si è iniziato a parlare di “modello tedesco”, ci sono cascati tutti; nessuno che abbia rilevato autorevolmente le differenze che abbiamo appena visto.
Con il Jobs Act al varo, si inizia oggi a parlare di “modello spagnolo”, e la cosa appare molto sensata. E non solo per una questione prettamente lavoristica. L’ipotesi in gioco è quella di introdurre – proprio come in Spagna – un indennizzo più alto al posto del reintegro per quel che riguarda il licenziamento disciplinare. Il diritto al reintegro nel posto di lavoro sarà quindi limitato ai licenziamenti nulli e discriminatori e «a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato». Per i licenziamenti economici viene esclusa la possibilità del reintegro nel posto di lavoro prevedendo «un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio». La Spagna ha un sistema produttivo molto simile al nostro. Consideriamo che nel 2011 era sull’orlo del default e che, con qualche significativa riforma strutturale, la situazione si è ripresa. Negli ultimi trimestri il Pil si conferma in crescita dello 0,5% circa.
A questo proposito è risultato importante – oltre alla buona riforma del lavoro dello scorso anno che ha di fatto dato inizio a un trend significativo per l’occupazione – anche il recente intervento sul fisco operato dal governo Rajoy, che ha portato il livello medio delle tasse spagnole sulle imprese dal 30% al 28% nel 2015 e al 25% nel 2016. Un confronto con il nostro livello di tassazione è difficile, ma se si prende come riferimento l’”Effective Tax Rate” (pressione fiscale rispetto all’imponibile) l’Italia è prima in Europa con il 58%, mentre la Spagna è al 29%; se invece si considera il “Total Tax Rate” (che comprende, oltre le tasse, anche i costi accessori come la burocrazia) l’Italia è al 65,8%, mentre la Spagna al 58,6%.
In poche parole, capiremo dalla Legge di stabilità quanto effettivamente il governo vuole tagliare a proposito di Irap, alleggerendo così la pressione fiscale sulle imprese. Certo è che il modello per la crescita passa anche per la riduzione delle tasse, andando a sfidare i limiti dell’austerità europea. Per il resto, il governo pare intenzionato a rilanciare il settore dell’edilizia investendo in grandi opere: si tratta di un settore strategico che negli ultimi sei anni è calato del 30%, contribuendo a una perdita di quasi 2 punti di Pil. Investire in questo settore significa rivitalizzare un segmento produttivo molto importante oltre che sviluppare la rete infrastrutturale, e fare così ripartire anche occupazione e domanda interna. Ma, a ogni modo, meglio il modello spagnolo di quello tedesco.
In collaborazione con www.think-in.it