L’economia è una scienza sociale. Dietro (e oltre) ai numeri ci sono sempre quindi comportamenti, scelte e aspettative. Basti un esempio su tutti: la banconota o la moneta che avete nel portafoglio; se non ci fosse la fiducia sarebbero quello che poi effettivamente sono: pezzi di carta o di metallo. Bisogna quindi fare attenzione a “maneggiare” i numeri (come certi “freddi” professori bocconiani fanno) – e pure a mescolare l’economia con l’ingegneria (come avviene in alcuni politecnici).



Questa premessa per parlare dell’Italia, o meglio del Giappone, visto che spesso i due paesi vengono accostati e accomunati. Ma quali sono i veri punti di contatto tra il Bel Paese e il Paese del Sol Levante, negli ultimi giorni al centro delle attenzioni per l’inaspettato calo del Pil nel terzo trimestre, che vuol dire recessione tecnica nonostante la “moneta stampata” dalla Bank of Japan?



A guardare i numeri, balza all’occhio il debito/Pil nipponico oltre il 230%, ben superiore quindi al 140% italiano. Secondo i “freddi” professori bocconiani, nell’arcipelago asiatico si dovrebbe quindi star peggio che nella penisola mediterranea. Tuttavia, il tasso di disoccupazione nipponico a fine 2013 era al 4% e nel primo trimestre dell’anno è sceso al 3,6%. Negli ultimi anni ha raggiunto un picco massimo del 5,4% nel 2002. Sappiamo bene che la realtà italiana è molto diversa (come minimo l’Italia ha raggiunto il 6,7% nel 2007 e ora viaggia sopra il 12%), specie se consideriamo anche il tasso di occupazione (72,4% in Giappone, 55,6% in Italia), in particolare tra i più giovani (nella classe di età 15-24 anni: 15,1% in Italia, 40,3% in Giappone).



Dietro a questi numeri c’è una spiegazione “comportamentale”. Da tempo il Giappone mira alla piena occupazione (tanto cara a Keynes) e capita così che ci siano dei lavori che altrove sarebbero considerati “inutili” (come gli addetti all’imbustamento dei prodotti alle casse dei supermercati o persone che davanti alle scale mobili hanno il compito di ricordare di prestare attenzione al gradino). Certo, qualcuno potrebbe far notare che in Italia ci sono ugualmente posti di lavoro “inutili”, in particolare nel settore pubblico e più per logiche elettorali che keynesiane. Se si fosse d’accordo (e in taluni casi è difficile non esserlo) bisogna però riconoscere che i “lavori inutili” in Italia sono a carico dello Stato e spesso non hanno nemmeno la funzione di agevolare il riempimento dei sacchetti al supermercato o di evitare cadute. In ogni caso, sia in Italia che in Giappone, si tratta di occupazioni che rispondono a scelte politiche e sociali.

Meglio trasferirsi in Giappone allora? Non se volete pagare meno tasse dirette: le aliquote massime su imprese e persone sono infatti più alte che in Italia. Anche se le imposte sui consumi sono decisamente più convenienti: l’Iva nel Paese del Sol Levante è stata introdotta solo nel 1989 ed è stata recentemente innalzata all’8% (e molti analisti dicono che sia stato questo aumento a portare il Pil in negativo).

E a proposito di Stato, qualcuno potrebbe pensare che il Giappone, che ha un deficit/Pil al 10%, abbia una spesa pubblica superiore a quella italiana. Invece no, perché nel Bel Paese supera il 50% del Pil, mentre nel Paese del Pacifico è intorno al 42%. Anche questo è ovviamente il frutto di scelte pubbliche. Come, ad esempio, il fatto che la sanità in Giappone non è interamente gratuita (anche se nemmeno in Italia poi di fatto lo è), ma richiede un 30% circa ai cittadini, i quali sono obbligati a una copertura assicurativa (spesso pagata dalle aziende per cui si lavora, come negli Usa). Ovviamente esistono anche dei sussidi per i meno abbienti.

C’è chi potrebbe pensare che tutto questo avviene perché i giapponesi sono meno degli italiani (quindi il sistema sarebbe più sostenibile dato che si è in di meno): è invece no, perché loro sono 127 milioni, più del doppio degli abitanti della penisola mediterranea. Questo in parte spiega anche perché lì si riesca a produrre molta più ricchezza: il Pil è stato pari a poco meno di 5mila miliardi di dollari nel 2013 e ha sfiorato i 6mila nel 2011 e nel 2012 (in Italia negli ultimi anni si aggira intorno a 2mila miliardi).

I punti di contatto tra i numeri di Italia e Giappone sono quindi nel salario medio per lavoratore (nel 2012: 34.561 dollari in Italia, 35.405 in Giappone), nel tasso di fertilità (1,42 in Italia, 1,41 in Giappone, sempre nel 2012 – anche se va ricordato che i flussi di immigrazione nel Paese del Sol Levante sono decisamente più ridotti e selettivi) e nel progressivo invecchiamento della popolazione (più accentuato in Giappone, dove gli over 65 nel 2013 erano il 25,1% degli abitanti, mentre in Italia il 20,8% – ma anche qui l’immigrazione ha il suo peso).

Chi, allarmato, segnala che l’economia italiana rischia di fare la fine di quella giapponese, forse dovrebbe guardare alle industrie, alle infrastrutture e alle tecnologie presenti nel Paese nipponico (basti pensare che la popolazione riesce a convivere con continui sismi) per rendersi conto che l’economia del Bel Paese ha ben più di un decennio perduto. E che il vero problema è il fatto che l’Italia, se si ammala del “virus della deflazione” (ben noto in Giappone), rischia grosso. E in questo senso una lezione importante il Paese del Sol Levante la dà a livello di politiche economiche: immettere liquidità nel sistema (come fatto dalla Banca centrale nipponica, e come si auspica che faccia anche la Bce contro la deflazione) non serve se poi si aumentano le tasse. Le scelte hanno quindi delle conseguenze sui numeri. E per capire meglio perché bisogna parlare delle aspettative: lo faremo in un prossimo articolo.

 

(1- continua)