La vera notizia risale a sabato 21 novembre, quando il New York Times ha riferito che Obama ha autorizzato l’estensione della presenza delle truppe americane in Afghanistan fino al 2024. Una notizia enorme ma data in sordina, nel disinteresse complessivo degli addormentati europei ma notata da Russia, Cina e India, oltre che dalla Santa Sede. Con un ordine presidenziale all’apparenza segreto, Obama ha ribattezzato la missione militare in Operation Resolute Support che include la collaborazione militare con il Pakistan nella guerra ai Talebani.



Questa decisione adottata da Obama su pressione delle sempre più potenti lobby americane pro guerra contraddice la solenne promessa fatta di ritirare entro il 2014 i 9800 soldati americani dall’Afghanistan. Si capisce così perché nelle 48 ore successive il Segretario di stato alla difesa, il capo del Pentagono Chuck Hagel, ha rassegnato le sue dimissioni che Obama ha travestito in una saga farcita dalla più bolsa retorica eccezionalista che orecchio umano abbia inteso dai tempi del primo Roosevelt.



Nelle stesse ore i negoziati sul nucleare iraniano sono di fatto falliti per l’indisponibilità americana ad affrontare la realtà con la necessaria disponibilità politica. A tutti è convenuto un rabberciato annuncio di estensione dei negoziati, per 4 mesi per raggiungere una fantomatica “cornice politica” e per 7 mesi (giugno 2015) per raggiungere un accordo sui dettagli del nucleare iraniano. Salvo fatti politici di portata tale da spostare l’attuale aggressività delle potenti lobby americane, l’ipotesi di un accordo con l’Iran è impossibile da raggiungere.

L’indeciso Obama, forte anche della sua incompetenza in politica estera e di sicurezza, dopo aver sonoramente perso le elezioni di midterm ha deciso di spostare nel tempo tutti i problemi che in parte ha egli stesso contribuito a creare: a Brisbane (Australia) ha annunciato che il famigerato Ttip slitta a fine 2015 (quindi passerà tutto alla prossima Amministrazione); con la Russia continua a provocarne la reazione militare armando i confini baltici ma soprattutto fornendo armi al governo ucraino, sperando che la reazione russa arrivi solo dopo il 2015; con l’Isis continua le mezze misure lasciando campo libero alle azioni saudite-israeliane e alle contromisure russe e iraniane oltre che turche; sulla Libia non si sente da mesi una parola di Obama; sui falliti negoziati tra Israele e la Palestina, Obama non si espone e lascia campo libero all’incompetenza europea e di alcune componenti nazionali che si lanciano in insostenibili riconoscimenti.



Ma è sul piano economico che Obama ha pagato un prezzo politico alto senza neppure rendersi conto che le sue politiche monetarie e fiscali stanno portando allo stremo molti paesi dell’Unione europea, oltre a creare pericolose tensioni con la Russia, l’Iran e in modo più felpato con la Cina. Dopo sei anni e mezzo di presidenza dell’afroamericano non si può tacere il suo plateale fallimento che lascia un mondo in subbuglio, un Occidente frantumato e senza leadership, e un’Ue al bordo del collasso.

Sul fronte interno, la sua eredità è di una società ancor più stratificata socialmente con una forte polarizzazione delle identità socio-culturali che non potranno che spingere verso l’estremizzazione della politica americana. Tutto ciò non è colpa dell’asse del male, degli Ayatollah, degli ignavi europei, del risoluto Putin o dell’imperturbabile Xi. Lo specchio di questo disastro riflette nitida una sola immagine: Obama.

Innumerevoli sono stati i richiami di papa Francesco contro la guerra – ricordiamoci che ha persino paventato scongiurandola la Terza guerra mondiale – ma anche contro le diseguaglianze, l’ingiustizia sociale ed economica e le gravi e crescenti offese della dignità umana. Nella sua visita alle 28 delegazioni politiche del Parlamento europeo e ai 53 delegati diplomatici riuniti nel Consiglio d’Europa, il Pontefice non ha usato mezze parole che sono sintetizzate nella sua denuncia della “globalizzazione dell’indifferenza che nasce dall’egoismo, frutto di una concezione dell’uomo incapace di accogliere la verità e di vivere un’autentica dimensione sociale”.

Una potenza morale che richiama i momenti più fecondi del pontificato del beato papa Paolo VI nel pieno della Guerra fredda. Ecco altri stralci: “I grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembrano aver perso forza attrattiva, in favore dei tecnicismi burocratici. Si ricava un’impressione generale di stanchezza e di invecchiamento, di un’Europa nonna e non più fertile e vivace”; “accanto al processo di allargamento dell’Unione europea è andata crescendo la sfiducia dei cittadini nei confronti di istituzioni ritenute distanti, impegnate a stabilire regole percepite come lontane dalla sensibilità dei singoli popoli, se non addirittura dannose”; “si constata con rammarico un prevalere delle questioni tecniche ed economiche al centro del dibattito politico, a scapito di un autentico orientamento antropologico. L’essere umano rischia di essere ridotto a un semplice ingranaggio di un meccanismo che lo tratta alla stregua di un bene di consumo da utilizzare”; “è tempo di favorire le politiche di occupazione ma soprattutto è necessario ridare dignità al lavoro, garantendo anche adeguate condizioni per il suo svolgimento”. “(occorre) reperire nuovi modi per coniugare la flessibilità del mercato del lavoro con le necessità di stabilità e certezza delle prospettive lavorative, indispensabili per lo sviluppo umano dei lavoratori”; “quando ci fermiamo nella situazione conflittuale perdiamo il senso dell’unità profonda della realtà, fermiamo la storia e cadiamo nei logoramenti interni di contraddizioni sterili. Purtroppo la pace è ancora troppo spesso ferita. Lo è in tante parti del mondo, dove imperversano conflitti di vario genere. Lo è anche qui in Europa, dove non cessano tensioni. Quanto dolore e quanti morti ancora in questo continente, che anela alla pace, eppure ricade facilmente nelle tentazioni d’un tempo! È perciò importante e incoraggiante l’opera del Consiglio d’Europa nella ricerca di una soluzione politica alle crisi in atto”.

È proprio in questo contesto che gli europei dovrebbero rapidamente cogliere l’opportunità offerta loro da un così vistoso indebolimento americano. Non farlo ora significherà non poterlo più fare quando nel 2016 la nuova presidenza avrà tutti i poteri di imporre con la forza la propria visione del mondo. In questa fase la soluzione politica delle crisi in atto è possibile. È compito e responsabilità dei cittadini e delle classi dirigenti lanciare una potente “offensiva di verità” che aiuti i due egemoni europei – la Germania e gli Usa – a esercitare meglio le proprie capacità egemoniche per l’interesse di tutti. Una glasnost nei rapporti interni all’Unione europea e tra l’Ue e gli Usa è il solo modo di evitare la deflagrazione e il caos.

Piuttosto che il supino allineamento europeo agli interessi strategici degli Usa (ammesso che ci siano e siano chiari) e l’indotto allineamento a principi tardo funzionalisti europei, l’Europa può essere un ponte per il dialogo globale. Ciò non significa cedere sui principi identitari e di civilizzazione democratica e sociale, ma al contrario essi possono essere difesi con maggiore determinazione e credibilità se ci si dissocia dalle evidenti derive appena nascoste dalla retorica dell’eccezionalismo. Parafrasando un bell’intervento di Francesco Sisci a proposito della Cina, abbiamo urgente bisogno di “un’Europa nuova e coraggiosa”. 

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