La situazione dell’Unione europea diventa giornalmente più preoccupante. In molti hanno identificato nell’utile uscita di Barroso la causa dei mali. Nonostante la sua innegabile modestia, non è stato Barroso il problema. Abbiamo davanti un’Ue circondata da crisi che da anni non governa neppure minimamente: la politica monetaria mondiale, che a piacere della Fed promuove o deprime la moneta unica; il prezzo delle commodities, che, deciso anche per effetto della politica monetaria del dollaro, colpisce inesorabile l’eurozona; una politica energetica europea che non è che una scelta di ripiego e senza ambizione verso il futuro; gravissime crisi geopolitiche in quasi tutti i paesi a Sud e a Est; l’aggressione finanziaria e commerciale delle grandi multinazionali mondiali, dall’agroalimentare alle tecnologie digitali; e la lista potrebbe continuare.



Il problema, come si può intuire, non è chi siede come presidente dell’Ue o della Commissione e a nulla servono gli esercizi di accomodamento gestionale o di governo delle strutture, ma è il concetto stesso di Unione europea. Un concetto che da un’intuizione federalista popolare mai realizzatasi si è poi trasformato in funzionalista o istituzionalista – cioè il potere delle tecnocrazie – per approdare a una forma di confederazione ibrida che vede sublimate in un sistema non più sussidiario ma “concorrenziale” sia gli apparati delle alte burocrazie nazionali, sia quelli delle tecnocrazie europee.



Queste ultime ormai resesi indipendenti, dopo la crisi del 2008, da ogni forma di controllo politico sia nazionale che di quell’assemblea elettiva europea chiamata Parlamento, tendono a difendere la propria esistenza contro gli stati e le nazioni. A loro volta, le alte burocrazie nazionali trovano utile che con soli 138 miliardi – il totale annuo del contributo all’Ue – possano avere una giustificazione “cogente” per le proprie inadempienze di governo. Nella realtà avviene che una vera costruzione europea, che per esistere non potrebbe che essere federalista, è ostacolata proprio dalle tecnocrazie e dalle burocrazie che altrimenti vedrebbero il proprio ruolo diminuito.



Quindi, il problema del pasticcio dell’Unione europea è eminentemente politico. Ma a questo livello, dopo un ventennio di Ue, assistiamo a un crescendo di forze centrifughe. Da un lato, sono emerse le forze egemoniche della Germania che, grazie al suicidio europeo del Regno Unito, hanno potuto progressivamente permeare significativamente la tecnocrazia europea. Dall’altro, assistiamo a un chiaro indebolimento delle nazioni e degli stati che le avevano accompagnate da qualche secolo in un quadro di scomposizione caotica degli interessi finanche nel quadro delle relazioni transatlantiche. Se a questo si aggiunge il risultato negativo, peraltro annunciato, dell’unificazione monetaria senza quella fiscale, oggi pensare a un’unità politica dell’Europa è una velleità irraggiungibile. A tal proposito molto chiare e mare sono le parole di Romano Prodi che qualche giorno fa ha presentato il nuovo volume di Nomos&Khaos.

Di fronte a questo disastro non si può sperare che rimandare le decisioni, qualsiasi esse siano, sia una scelta sostenibile. La prima decisione, che forse è quella più facile, è di mantenere lo status quo. Se questa sarà la scelta nel prossimo Consiglio europeo di dicembre, si deve già essere preparati a una violenta ondata recessiva e deflazionista che verrà anche a causa delle decisioni di inversione della politica monetaria americana, ma anche brasiliana e cinese. Insomma, significa aver già pronte le “barelle sociali”, perché il welfare e l’occupazione diventeranno insostenibili.

Benché una tale scelta sembri poter accomodare gli interessi di breve termine delle tecnocrazie europee e delle burocrazie nazionali, a nostro modo di vedere sarebbe una decisione sciagurata. Temiamo, però, che anche la nuova Commissione guidata da Juncker, che ha promesso investimenti per la crescita di solo 300 miliardi, peraltro ricavati dal bilancio corrente, quindi tecnicamente riciclati, vada proprio in questa direzione sciagurata.

La seconda scelta è quella di fare un salto di qualità politico andando nella direzione di un compiuto confederalismo – il federalismo è ormai irraggiungibile – che metta in comune alcune, poche ma certe, prerogative degli stati. Ad esempio, la politica economica e fiscale, e i fondi per l’educazione, la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie. Ma anche in questo caso ci sembra un sogno irraggiungibile, perché al momento nessun leader politico nazionale lo sosterrebbe. Con la conferma della doppia egemonia, tedesca e americana, in Europa, nessun Capo di stato o di governo si fida più dell’altro. Infatti, la strategia prevalente è di innescare difficoltà crescenti nel rapporto tra i due egemoni che già da soli hanno non poche divergenze.

La terza scelta è di prendere atto dell’impossibilità di mantenere insieme l’eurozona, perché i riflessi politici e sociali nazionali rendono impossibile la tenuta dell’ordine degli stati membri. Quindi si tratterebbe di procedere a un accordo di separazione consensuale. Ciò porterebbe alla creazione progressiva di almeno due o tre zone monetarie che trovino una forma di coordinamento. Questa sembra la scelta alla quale si sta orientando la stessa Merkel. Il vantaggio sarebbe di mantenere il mercato unico. La difficoltà è che una tale scelta non piace agli Usa che temono l’esistenza di una Germania “indipendente” dai legami europei, e magari a termine da quelli transatlantici.

Questi tre scenari devono essere calati da un lato nella realtà del mondo globalizzato e dall’altro nel complesso rapporto transatlantico. In quest’ottica, il primo scenario converrebbe a far galleggiare gli illanguiditi leader europei, ma non è preferito da Usa e Cina. I primi l’accetterebbero solo se l’insieme Ue entrasse in blocco nel Ttip. I secondi non l’accettano perché vorrebbero un’Ue in qualche modo autonoma dagli Usa. Per la Russia un tale scenario significherebbe che la Nato continuerà a essere il “guardiano” dell’Ue creando frizioni e imbarazzi sui suoi confini.

Il secondo scenario non incontrerebbe l’entusiasmo americano, specialmente della componente neocon in ascesa, ma verrebbe probabilmente sostenuto dalla Cina e forse anche dalla Russia. Infine, il terzo scenario converrebbe certamente agli Usa, alla Cina e alla Russia che potrebbero più facilmente giocare sulle differenti percezioni e divisioni per trarne soddisfazione sul piano economico e della sicurezza.

Come si può capire, con una presenza americana così significativa in Europa, gli stati europei sono in stallo operativo. Non potranno che aspettare di sapere quanto cambieranno gli equilibri di potere americani dopo le elezioni di midterm del prossimo 4 novembre e tentare di farsi il meno possibile male da soli.