“Non voglio dover difendere l’euro per i prossimi cinque o dieci anni con l’attuale governance”.Wolfgang Schäuble non è Angela Merkel. È nato nella Germania Ovest, si è nutrito della visione europea di Helmut Kohl di cui era il più probabile successore, sicuramente il più attrezzato e potente. Per Timothy Geithner, ex segretario al Tesoro di Obama, nelle sue controversie memorie dei suoi viaggi al capezzale dell’euro, è l’unico politico europeo degno della sua stima (“impressive”). Certo con la Merkel e con il “Volksgeist” condivide il sogno del pareggio di bilancio quale variabile indipendente dal ciclo economico, ma le sue parole segnano una presa di coscienza ormai matura nelle elite europee. Il malato è il continente e l’euro, così com’è, un amplificatore e acceleratore della malattia. Certo, vi sono parti più invase dal morbo, ma la guarigione passa per una terapia sistemica e per un ripensamento della governance della moneta unica la cui alternativa è l’eutanasia dell’eurozona.
E non sono solo i recenti pessimi numeri della sua economia, assurti al proscenio della cronaca, a dire alla parte più avveduta della classe dirigente tedesca che non c’è salvezza per nessuno, ma altri numerimeno dibattuti in pubblico. Perché i panni sporchi si lavano in famiglia. A ben vedere, la Germania è cresciuta del 3,6% dall’inizio della crisi finanziaria globale del 2008 – poco più di Francia e Regno Unito, ma meno della metà del tasso di Svezia, Svizzera e Stati Uniti. Dal 2000, l’aumento del Pil è stato in media appena dell’1,1% all’anno (il 13mo sui 18 Stati dell’Eurozona). Gli investimenti sono scesi dal 22,3% del Pil nel 2000 al 17% del 2013 bruciando molte delle chances di crescita futura e aggravando l’obsolescenza infrastrutturale tedesca. Il sistema educativo non si può dire all’avanguardia se il Paese ha meno giovani laureati (29%) della Grecia (34%) e i suoi migliori atenei arrancano nelle classifiche mondiali delle 50 top università.
La Germania figura 111ma nella classifica “doing business” della World Bank che monitora nei vari paesi la facilità di iniziare e gestire un impresa. E anche i suoi punti di forza più celebrati, come il riformato mercato del lavoro, se paragonati a quello di Stati Uniti e altri paesi, dalla prospettiva di un investitore, non reggono il confronto (risolvere un contratto a tempo indeterminato in Germania è tutt’altro che uno scherzo). Non è un caso del resto che dalle parti del Reno o della Ruhr o altrove sul suo territorio non siano nate Apple, Google, Linkedin, Uber, Telsa o fenomeni simili Per non parlare del suo notoriamente poco dinamico settore dei servizi e del sistema bancario.
Poco si sa degli attivi delle 417 casse locali (“Sparkasse”), di proprietà pubblica, fuori dal monitor della Bce, che sono il lubrificante della politica tedesca e funzionano secondo logiche non lontane dalle casse di risparmio italiane della prima Repubblica. Perfino la macchina dell’export tedesco ha subito un rallentamento. La sua frazione di esportazioni mondiali è scesa dal 9,1% del 2007 all’8% nel 2013 e poiché le automobili e le altre esportazioni “made in Germany” oggi contengono molte parti prodotte fuori dalla Germania, la quota di esportazioni in termini di valore aggiunto è al minimo storico.
Politici dell’acume di Schäuble conoscono bene questi dati, come sanno perfettamente che gli squilibri demografici del Paese sono fortemente disfunzionali al mantenimento dell’attuale tenore di vita. O che la tanto decantata produttività del lavoro è, da qualche tempo, stagnante e solo il vero e proprio “dumping” salariale degli ultimi anni ha consentito l’ancora significativo surplus commerciale. A spese però della domanda interna e dei lavoratori che hanno visto i loro salari reali fermi al palo ed identici a quelli del 1999.
Naturalmente la Germania è la Germania e non è l’Italia e neanche la Francia, ma deve applicarsi alle classi dirigenti tedesche una presunzione di intelligenza delle cose. Al netto delle gigantesche responsabilità dei singoli paesi, e in particolare dell’Italia, il problema è che il mondo negli ultimi vent’anni è maledettamente cambiato e il continente europeo non se n’è accorto mentre si baloccava con la sua moneta senza Stato. Una cosa emerge però sicura. L’euro, pensato da Kohl e Fisher come un porto intermedio allo Stato federale europeo, ha allontanato in mare aperto la nave. Amplifica la crisi e i suoi effetti, scava vecchie trincee tra i popoli e così com’è rischia di affondare presto.
The Economist, in un suo recente editoriale, “Il più grade problema economico del pianeta”, scrive che l’Eurozona sta per ammalarsi di deflazione ed è “sull’orlo della terza recessione in sei anni. Aggiunge: “Con il debito di Italia e Grecia che continuerà a crescere, gli investitori si spaventeranno, i politici populisti guadagneranno terreno e – più prima che poi – l’euro collasserà”. “Più prima che poi”.
E in effetti piani di evacuazione ordinata della nave in Germania sono ormai programmi politici. Quelli dell’Afd (Alternative für Deutschland), l’opposto dei fenomeni da baraccone italiani delle falangi anti-euro. Un partito le cui menti sono accademici di primo piano, fiancheggiati dalle lucide tesi di Otmar Issing, l’ex capo economista Bce e di Allan Meltzer, 86 anni, noto economista bostoniano, consigliere di Ronald Reagan e presidente uscente della Mont Pelerin Society, un esclusivo club internazionale di personalità liberali. La terapia indicata è una “Germanexit”, ma insieme a un nucleo di nazioni “forti” ed economicamente omogenee così da lasciare la vecchia barca dell’euro agli Stati più in difficoltà che a questo punto potrebbe continuare a galleggiare attraverso una svalutazione meno traumatica della moneta rispetto al nuovo euro. Una svalutazione, come è sempre accaduto in passato a paesi come il nostro, che evita agli Stati in deficit di competitività di passare per l’attuale dolorosa fase di deflazione interna (attraverso i salari), e al contempo ne eviterebbe il certo default per il gigantesco debito, conseguente l’abbandono unilaterale della moneta unica con la svalutazione degli attivi, laddove i debiti in valuta pregiata diverrebbero montagne e le proprie banche un cimitero di fallimenti. In fondo la nota idea dell’Europa a due velocità che frettolosamente era stata impacchettata in una moneta che fingeva di annullare le sottostanti diversità di struttura, ma che lascia aperta la possibilità di una futura riunione.
Quando però tale progetto, circolato sul tavolo di molte cancellerie europee, è stato illustrato a Schäuble questo avrebbe sibilato: “E la Francia?”. Già, la Francia. A pieno titolo, quanto ai fondamentali economici, nel club med, e bisognosa quanto l’Italia di un riequilibrio con la Germania che passi da un processo svalutativo, ma quanto ai fondamentali politici Paese indissolubilmente legato alla Germania che mai accetterebbe un giro in Serie B. Non deve poi aver convinto granché l’accorto ministro della Merkel, l’idea di offrire ai più temibili concorrenti delle imprese tedesche (italiani in testa, seconda potenza esportatrice in Europa, ma anche francesi e spagnoli) un formidabile vantaggio competitivo in tempi così grami per tutti.
Il piano ha in ultimo un tratto essenziale che lo rende sì buono alla bisogna, se le cose dovessero precipitare, ma che tende a perpetuare lo stesso errore dell’euro “uno” e delle aree monetarie ottimali che esistono solo nel nirvana di alcuni economisti. Nessuno storico ha mai visto prosperare monete senza Stato e senza un bilancio federale con funzioni perequative e anti-cicliche. L’idea di lasciare al caso la fortuita convergenza del ciclo economico di aree differenti (sebbene più omogenee) senza un’unione fiscale e una banca centrale che funga da prestatore di ultima istanza dovrebbe aver già fatto sufficienti danni per essere abbandonata.
Per questo quando Herr Schäuble dice che “l’Europa deve urgentemente cambiare i trattati, almeno per l’Eurozona, e serve un rafforzamento della governance economica con un ministro delle Finanze per i 18”, dovrebbe essere preso molto sul serio. E sarebbe interesse italiano farlo, piuttosto che inseguire assi del sud che chiedono, velleitariamente, politiche di bilancio espansive senza un quadro o almeno una prospettiva federale su cui fondarle che la Germania continuerà a rigettare. Molto meglio sfidarla piuttosto sul suo terreno e andare a vedere le carte di Schäuble. Presto. Molto presto. Prima che l’euro, tenuto in coma farmacologico da Draghi e dall’enorme liquidità iniettata dalle banche centrali, sia dichiarato in coma irreversibile. Si spacchetti in due e si ricominci da capo in un “eterno ritorno”.