Le Province tornano a battere cassa e a chiedere soldi anche dopo essere state abolite. L’Unione delle Province Italiane (Upi) ha fatto sapere che “con 1 miliardo di tagli lo Stato manda in dissesto Province e Città metropolitane”. Nel corso di un’audizione alla commissione Bilancio della Camera, l’Upi ha fatto sapere che “l’unica possibilità per evitare il blocco dell’erogazione dei servizi e l’esubero del personale – si legge nel documento consegnato – è spostare, da subito in Legge di stabilità, quelle funzioni che la Legge Delrio toglie dalla gestione delle Province”. Abbiamo chiesto un commento a Ugo Arrigo, professore di Finanza pubblica all’Università di Milano-Bicocca.
Professore, ma le Province non erano state abolite?
Non essendo più chiamati alle elezioni per i consigli provinciali, i cittadini pensano che siano state abolite anche le Province. In realtà non c’è più l’elezione diretta, ma sono i sindaci e i consiglieri comunali che hanno contribuito a stabilire chi gestisce le Province. Queste ultime sono esattamente quelle di prima, con le stesse competenze di prima, ma semplicemente non c’è più un organismo a elezione diretta che le governa, bensì soltanto un organismo a elezione indiretta. A parte il fatto che è stata risparmiata la spesa elettorale, per il resto siamo più o meno agli stessi livelli di prima.
Questo risparmio sulle elezioni è stato significativo?
Anche se è di dimensioni limitate è sempre meglio di niente, ma per ora è un risparmio marginale. Se poi questo è il preludio per un accorpamento più sostanzioso e per un ridisegno delle funzioni, allora ben venga.
Ritiene che le competenze degli enti locali vadano ridisegnate?
Sì, e questo è il vero problema. Governo, Regioni e Province dovrebbero dare l’indirizzo politico, e non invece fornire l’amministrazione diretta dei servizi. Dare l’indirizzo politico significa, per esempio, decidere se un certo territorio ha bisogno di un ospedale o di un reparto in più.
Dove sta la differenza?
Spetta alla politica il fatto di scegliere tra migliorare una strada, costruire un nuovo edificio scolastico o un reparto ospedaliero, compatibilmente con le risorse disponibili. La gestione diretta di un ospedale, di una scuola o di una rete viaria coinvolge invece solo un livello tecnico e implica un impiego efficiente dei fondi.
In che modo?
Per esempio, se si tratta di fare una manutenzione dell’impianto elettrico di un edificio pubblico, aggiustarne il tetto o rifarne la tinteggiatura, la persona più competente è il dirigente scolastico senza nessun bisogno di consultare l’assessore della giunta provinciale, che giustamente è stata abolita. Allo stesso modo, se una strada è piena di buche e va sistemata è sufficiente che a decidere di farlo sia l’istituto tecnico. La manutenzione delle strade provinciali potrebbe essere tranquillamente gestita dall’azienda pubblica, accorpandola a quella delle strade nazionali.
E in questo modo le Province eviterebbero il default?
Il punto è che un conto è l’ordinaria amministrazione e la gestione ordinaria di un apparato burocratico che consuma risorse e produce servizi. Altra cosa è la scelta politica, con obiettivi incompatibili di scelte che hanno per effetto il benessere della popolazione e del territorio.
Quindi lei terrebbe due bilanci distinti?
Il budget per il funzionamento ordinario di un apparato pubblico è molto più elevato rispetto alla spesa discrezionale necessaria per attuare politiche. Spesso la spesa discrezionale riguarda gli investimenti, ma è di un ordine di grandezza molto più piccolo rispetto a ciò che occorre per l’ordinaria amministrazione. Quando i politici hanno in mano il budget dell’ordinaria amministrazione, possono usare nel modo migliore i soldi che rimangono a disposizione. Il motivo per cui non si vuole accettare questa separazione è che in questo modo la politica riesce a gestire budget molto più elevati, e quindi anche un maggiore potere, anche se ciò va a discapito dell’efficienza dei servizi pubblici.
(Pietro Vernizzi)