«Dietro l’inchiesta sugli accordi fiscali segreti del Lussemburgo c’è il gigante americano che si è risvegliato e che è pronto a dire basta alle politiche rigoriste della Germania». Lo sostiene Giulio Sapelli, professore di Storia economica all’Università degli Studi di Milano, dopo che è emerso che 340 multinazionali tra cui Ikea, Pepsi, Deutsche Bank, FedEx e Aig hanno stretto accordi segreti con il Lussemburgo per evadere le tasse. Un’inchiesta che colpisce indirettamente il nuovo presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, che del Lussemburgo è stato per molti anni premier. Un caso che emerge nel momento in cui anche un altro protagonista europeo, il presidente della Bce Mario Draghi, è sempre più nel mirino della Bundesbank e dei suoi satelliti.
Perché ritiene che dietro l’inchiesta sul Lussemburgo ci siano gli Stati Uniti?
Chi ha interesse a indebolire Juncker sono gli stessi gruppi di potere che hanno interesse a evitare la depressione deflazionistica europea, cioè sostanzialmente gli Stati Uniti. I Repubblicani hanno deciso di imprimere una torsione alla politica estera americana che riguardi anche l’Europa. Questi gruppi erano già in azione nella fase in cui Obama era in ascesa, e lo sono a maggior ragione adesso che il presidente Usa è contestato. Lo stesso entourage di Obama del resto non ha mai apprezzato la politica economica della Merkel.
Chi è il capofila della nuova politica Usa verso l’Europa?
Il senatore repubblicano Mitch McConnell il quale, oltre ad aver proposto la business-friendly agenda, sostiene che il Patto translatlantico va messo a punto come vogliono gli Usa e non come vogliono gli europei. Ma non c’è solo McConnell, è tutta una serie di forze che vuole delegittimare Juncker, cosa che peraltro non mi sembra difficile. Il presidente della Commissione Ue è un leader che viene dal Lussemburgo, cioè da un Paese con un peso geopolitico molto limitato e il cui unico punto di forza è quello di essere una capitale delle imprese finanziarie. Tutti questi fattori messi insieme spiegano perché nell’opinione pubblica americana Juncker non gode di buona fama.
Come si spiega invece i nuovi attacchi della Bundesbank contro Draghi?
In questo caso la colpa è tutta di Draghi, il quale evidentemente non ha mai letto Machiavelli secondo cui “gli uomini si devono o blandire o uccidere”, ma mai ferire o umiliare perché poi si vendicano. È stato questo l’errore di Draghi nei confronti della Germania, rispetto a cui ha dimostrato la sua sudditanza consentendo che gran parte delle banche tedesche sfuggisse agli stress test.
Con quali conseguenze?
La principale conseguenza è che è venuta alla luce tutta la debolezza di Draghi. Il fatto stesso che per fare gli stress test la Bce abbia dovuto ricorrere a dei consulenti esterni pagandoli decine di milioni di euro significa che c’è una profonda perdita di legittimità dell’Eurotower. Draghi inoltre non ha mai mantenuto le sue promesse, anche perché lo statuto glielo impedisce. Il presidente della Bce deve il suo incarico a Timothy Geithner, ex segretario al Tesoro degli Stati Uniti. Eppure Draghi non soddisfa gli americani, non soddisfa i tedeschi e non fa altro che prenderle da tutte le parti senza riuscire ad arrivarne a una. Alla fine l’unica cosa che forse gli riuscirà sarà quella di diventare presidente della Repubblica, il che andrà tutto a discapito dell’immagine pubblica dell’Italia.
Chi rischia di più, Juncker o Draghi?
Non rischia nessuno dei due perché “cane non mangia cane”. Gli unici che rischiano sono i popoli europei, la povera gente, il cui possibile riscatto dipende molto di più dagli Stati Uniti che non dai leader europei. L’unico errore di Washington è stato quello di avere messo i missili in funzione anti-russa in Polonia, ma per il resto basta visitare i nostri cimiteri per vedere quanti giovani americani hanno perso la vita per liberare l’Europa dal Nazismo. Ora gli Stati Uniti devono capire che è necessario che salvino l’Europa per la seconda volta, perché se non ci libera dai tedeschi anche l’America morirà.
Che cosa possono fare gli Stati Uniti per l’economia europea?
Ciò che occorre è un grande piano Marshall neokeynesiano basato sull’intervento pubblico nell’economia. Proprio come è avvenuto negli Usa dove non è stata attuata solo una politica monetaria espansiva, ma anche dei grandi investimenti pubblici.
In un momento di recessione gli Usa hanno i mezzi per un nuovo piano Marshall?
Certamente sì, gli Stati Uniti sono un grande Paese. Washington deve tornare a essere il leader mondiale, e per farlo deve chiamare attorno a sé i Paesi emergenti, impedire lo sbriciolamento dell’Occidente, riallacciare i rapporti con il Brasile e impedire che quest’ultimo finisca nell’orbita della Cina.
(Pietro Vernizzi)