Ormai è chiaro a tutti che un terzo dei seggi del Parlamento europeo – l’unica istituzione europea che emana dalla volontà popolare – non si riconosce più nell’europeismo istituzionalizzato. Considerando che circa la metà degli elettori aventi diritto di voto ha scelto l’astensione, il messaggio popolare maggioritario è per un’Europa diversa da quella che oggi c’è. Ma l’incestuoso sodalizio tra le elites europee e nazionali – le alte burocrazie nazionali e le tecnocrazie europee – insiste nell’imporre il modello di Unione europea, pur essendo sostenuto da un’evidente minoranza dei cittadini europei.



Quest’insistenza a difendere a tutti i costi un modello che nei suoi 20 anni di vita ha provocato un danno enorme – sociale, politico ed economico – si deve alla conveniente conversione di queste elites al pensiero unico neoliberista di importazione anglosassone e particolarmente nordamericana. Un pensiero unico che è alieno alla coscienza antropologico-culturale e all’esperienza storica di tutte le nazioni del continente, dall’Atlantico agli Urali. È piuttosto facile prevedere che questa forzatura già piuttosto in crisi rischia di sfociare in un disastroso caos intra-europeo che, attorno a movimenti antagonisti autoctoni e gruppi sovversivi importati con l’immigrazione, porterà al riemergere della competizione egemonica in Europa.



L’assurdo comportamento delle istituzioni europee nei confronti della Russia ma anche del regime golpista in Egitto, e l’incapacità di avere una minima influenza nelle guerre in atto sui confini meridionali e orientali europei, sta a dimostrare che l’Europa che c’è non esiste. L’unico stato membro che ancora conserva una capacità di visione strategica, sia verso l’Europa che verso l’estero, è la Germania. Quest’ultima ha assunto progressivamente un piglio sempre più egemonico – ma non necessariamente sbagliato – che ha come riflesso condizionato la resistenza degli altri partner che si aggrappano alla “protezione” dell’altro egemone, gli Stati Uniti d’America. È piuttosto ovvio che questo stato di cose non è una soluzione sostenibile per chi pensa in termini europei ed europeisti.



Ricordando che l’idea europea era sostanzialmente di origine liberale e popolare, è l’Europa nata dal “colpo di mano neoliberista” manifestatosi con il Trattato di Maastricht e il successivo regolamento 1466/97 che è invisa ai popoli e alle nazioni europee. Non fu un caso che potenti forze sociali e culturali portarono alla bocciatura referendaria anche dell’ignominioso esercizio di stile che fu il “Trattato costituzionale”. Il paradosso è che l’abbandono del concetto originario di Europa è stato perpetrato principalmente grazie al contributo trasformistico del pensiero politico socialista, comunista e socialdemocratico, tra il 1985 e il 1999. Nel tentativo di lavare l’abiura delle loro origini marxiste quei politici si sono trasformati nei principali esecutori e vassalli del pensiero unico anglo-americano.

Gli anziani leader popolari e socialdemocratici – ad esempio Helmut Schmidt e Helmut Kohl, ma anche Giulio Andreotti e Pietro Ingrao – nelle loro memorie hanno ribadito che le scelte fatte dopo l’89 “non erano nell’interesse dei popoli” che essi rappresentavano (il più chiaro fu proprio Kohl). Ma le nuove elites nazionali ed europee vennero proprio dai ranghi di quei partiti trasformisti. Questo spiega lo stato di cose attuale in Europa. Prendiamone atto e cerchiamo di salvare la speranza in un futuro dell’Europa, prima che sia troppo tardi (e siamo proprio ai limiti massimi di tempo rimasto!).

L’aggressione mediatica e ideologica contro chiunque non sia allineato al pensiero europeista dominante è una chiara dimostrazione di debolezza del clan delle elites. Epiteti vari sono scagliati contro i leader politici e gli eletti che rappresentano l’opposizione al modello dominante europeista. Dal punto di vista qualitativo le accuse virulente sono fondamentalmente stupide e non fanno che rafforzare quei sentimenti disgregatori del sistema. Le elites arroccate nell’europeismo ufficiale, con il contorno di quella pletora di servi scrivani che grazie a prebende e dividendi fanno da gran cassa mediatica, hanno già perso.

Le prossime tornate elettorali, che tra il 2015 e il 2018 toccheranno tutti i principali stati europei, porteranno a uno stravolgimento dell’ordine attuale. Non si tratta di una profezia di Cassandra, ma della semplice analisi neutrale delle tendenze in atto in tutti i paesi europei, Italia inclusa. Ciò che emerge, come da anni i bravi ricercatori demografi segnalano, ad esempio Emmanuel Todd, è che i sentimenti profondi e le mentalità radicate nelle nostre società stanno riprendendo il coraggio di esprimersi. Chiaramente ciò avviene come possono, essendo di fronte a un forte potere di interdizione e di discriminazione, verso forme di radicalismo tanto di sinistra neo-trotzkista tanto di conservatorismo reazionario e di ispirazione religiosa.

Quel che viene declassificato rapidamente e con superficiale presunzione come “populismo” è l’incarnazione dinamica di questi sentimenti di vastissimi settori delle nostre società. Chiaramente le legislazioni elettorali e la propaganda dei regimi delle elites finora hanno tentato di contenere, più o meno, la forza di sfondamento che viene dalle radici delle nostre società europee. L’Europa di oggi si trova in una situazione pre-rivoluzionaria non dissimile da quella che nella seconda metà del ‘700 mise in crisi i vari modelli di ancien regime. Con l’elezione delle elites europee nel 2014, o con il consolidamento extra-democratico di quelle nazionali, si è guadagnata una finestra temporale di 2-4 anni. Se non si cambia rotta, questi sistemi di potere crolleranno sia per implosione, sia per il caos che li circonderà. Uno scenario piuttosto serio e probabile che vorremmo scongiurare.

Il blocco di potere nazionale ed europeo composto dalla coalizione di popolari- liberali- socialdemocratici al massimo può tentare la difesa dello status quo, aspettando la sconfitta finale. Da questo blocco di potere non potranno venire novità di rilievo per una questione qualitativa sia derivata dall’eterogeneità originaria, sia per l’illanguidimento culturale degli esponenti che lo guidano. Infatti, come ha detto Daniel Gros, “da Juncker non ci si può aspettare granché, perché non ha coraggio”.

D’altra parte, parafrasando Pierpaolo Pasolini in chiave europea, si può dire che era già prevedibile dagli anni ‘70 che in forza della “spoliticizzazione completa [dell’Italia] diventeremo un gran corpo senza nervi, senza più riflessi. Lo so: i comitati di quartiere, la partecipazione dei genitori nelle scuole, la politica dal basso… Ma sono tutte iniziative pratiche, utilitaristiche, in definitiva non politiche. La strada maestra, fatta di qualunquismo e di alienante egoismo, è già tracciata. Resterà forse, come sempre è accaduto in passato, qualche sentiero: non so però chi lo percorrerà, e come”.

Quindi è il tempo della ricostruzione, della riconcettualizzazione per il rinascimento dell’Europa nel mondo globale. Questo non lo si può fare su linee teoriche e ideologiche, come vorrebbero i leader del blocco di potere europeista. Si deve necessariamente ripartire dalla base popolare dell’Europa che non può che essere nazionale. L’idea teorica di Unione europea esisteva ben prima del XX secolo e affonda le sue radici proprio nel rispetto reciproco e collaborativo – non in quello omologante com’è oggi – dei popoli e delle nazioni. D’altra parte l’agonizzante Unione europea di oggi ha poco più di 20 anni mentre le nazioni europee hanno almeno 400 anni di storia pregnante, e si sono consolidate proprio nella globalizzazione di allora. Parlo di popoli e nazioni e non di nazionalismo, che è tutt’altro e più tardo e nefasto concetto.

Abbandoniamo sterili e perdenti preconcetti verso coloro che, anche se spesso in modo estremizzato, stanno cercando di incanalare nuovamente le mentalità e i sentimenti nazionali in un contesto paneuropeo che promuova il coordinamento e la collaborazione tra i popoli e le nazioni che l’Europa già fecero grande. Questa è la base della “Alternative for Europe”, per ora un’intuizione, che potrebbe svilupparsi ed evitare il ritorno alle egemonie nazionali e ai nefasti nazionalismi egoistici del recente passato. Insistere sull’imposizione feroce di un’unità omologante scatenerà le peggiori reazioni sociali e culturali che, almeno chi scrive, teme e si batterà per ostacolare.

Nei prossimi contributi svilupperò il concetto di “centralismo identitario” che è la precondizione per riportare l’Europa al centro sia dell’Occidente che del mondo. Per fare ciò è necessario recuperare l’indipendenza persa nel 1918, che ci ha progressivamente portato a essere – divisi o uniti – un’appendice di potenze che propriamente europee non sono. Ciò non vuol certo dire che debbano essere abbandonati i legami – più commerciali e finanziari che culturali – che abbiamo costruito nel secolo transatlantico. Il “centralismo identitario” significa riguadagnare la credibilità della forza “orizzontale” europea nelle relazioni mondiali. Come fu allora anche oggi c’è spazio politico per poterlo rifare in modo aggiornato e più maturo.

Chissà che queste note non suonino celestiali alle orecchie del neoministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni. Noi vogliamo sperarlo.