Pare che il redde rationem per l’eurozona abbia fretta di arrivare e sia intenzionato a bruciare sull’anticipo anche le mie previsioni, quelle notoriamente catastrofistiche per alcuni mie affezionati lettori. Lunedì, infatti, vi dicevo come l’elezione del presidente della Repubblica in Grecia, attesa per febbraio, avrebbe potuto tramutarsi in evento destabilizzante, vista la risicata maggioranza su cui può contare la coalizione di governo. Bene, è di ieri la notizia che il governo greco ha deciso di anticipare al 17 dicembre le votazioni per il nuovo capo dello Stato ed è molto probabile che si andrà anche a elezioni generali anticipate a febbraio o a marzo.



Il perché è presto detto, come vi spiegavo lunedì parlando del sistema elettorale ellenico: nelle prime due votazioni, che si terranno il 17 e il 22 dicembre, occorre una maggioranza dei due terzi, ovvero 200 voti, nella terza, programmata per il 29 dicembre, una maggioranza di tre quinti, ovvero 180 voti, ma per arrivare a 180 i partiti di governo devono convincere 25 parlamentari dell’opposizione a passare dalla loro parte. Poco probabile che ci riescano, a meno di interventi molto convincenti da parte di manine estere (sempre attive, tra l’altro). Se però la democrazia greca per una volta farà il suo corso senza manovre eterodirette, tutti danno per certe le elezioni anticipate, come prescrive appunto la legge nel caso in cui alla terza votazione non si riesca a eleggere il capo dello Stato.



E qui, al momento, l’epilogo pare scontato. Dal ritorno anticipato alle urne dovrebbe uscire vincitore Syriza, il partito di sinistra guidato da Alexis Tsipras e questa prospettiva già ieri ha fatto tremare le borse, con Atene che ha chiuso al -12,93% (il peggior risultato da 27 anni a questa parte) e le banche, le stesse cannibalizzate in questi mesi di calma apparente dagli hedge funds attraverso i covered warrants, letteralmente a picco (National Bank of Greece -15%, Piraeus Bank -17% e Attica Bank -26%). Ma è difficile che Tsipras riesca a raggiungere il 33,7% (gli ultimi sondaggi lo danno intorno al 27%), la quota minima per ottenere la maggioranza dei seggi in Parlamento e il leader anti-austerity dovrà quindi formare un governo di coalizione, inevitabilmente depotenziando la sua portata di novità e anche la radicalità delle sue richieste.



In realtà, già da tempo Syriza non è più lo spauracchio dei mercati finanziari, avendo archiviato da parecchio la minaccia di uscita della Grecia dall’euro, mentre per quanto riguarda il debito pubblico ellenico Tsipras vorrebbe cancellarne un terzo: il tutto, però, dovrebbe avvenire consensualmente all’interno di una conferenza europeo sul debito (si suppone che la cosa coinvolgerebbe anche l’Italia). In quanto alla Troika, Syriza chiede la fine immediata delle politiche di austerità, ma alla fine, a detta degli economisti di Barclays, dovrà comunque negoziare con la Troika per trovare le risorse necessarie per stimolare l’economia e riportare il salario minimo a 750 euro al mese.

Detto questo, Syriza resta sempre un’incognita e nuovi dubbi sulla Grecia potrebbero rimettere in moto una fase di turbolenza sui mercati, tanto che ieri il rendimento del decennale ellenico è salito all’8,071%, nulla a che vedere con il 30% di balzo registrato durante i picchi della crisi all’inizio del 2012, ma giova ricordare che solo a settembre lo stesso yield era al 5,5%. E i segnali non mancano di rinnovata tensione: Torgeir Hoein, portfolio manager alla Skagen Funds, fondo norvegese che sovraintende ad assets per circa 17,5 miliardi di dollari, deteneva bond greci per un 5% del totale fino a due settimane fa, quando di ritorno da un viaggio ad Atene ha deciso di liquidare tutto: «Eviterò assolutamente la Grecia fino a quando le nebbie non si saranno diradate. Non penso che l’eventuale, probabile vittoria di Syriza porterà all’uscita della Grecia dall’Ue, ma certamente ci saranno negoziati molto, molto duri. Potrei guardare a un punto di rientro nel mercato greco in futuro ma non certo oggi».

Per l’analista di Deutsche Bank, George Saravelos, «la politica greca ha rigettato i mercati in un periodo di elevato rischio di credito da qui a fine anno. La combinazione di un’alta incertezza elettorale e la mancanza di un backstop finanziario ufficiale non farà alto che porre pressione sul debito sovrano». Per Philip Lawlor, capo investimento alla Smith&Williamson, uomo che gestisce assets per 24 miliardi di dollari, le ripercussioni greche possono andare a scuotere nuovamente l’intera eurozona: «L’ultima cosa di cui la zona euro ha bisogno in questo momento sono le elezioni anticipate in Grecia, con la più che probabile vittoria di Syriza. Diciamo che l’Europa in questo momento è un’area molto colpita dalla siccità, con l’aggravante di continui deterioramenti economici. Basta davvero un mozzicone di sigaretta per far prendere fuoco a tutto».

E che il rischio sia tutt’altro che peregrino lo ha dimostrato ieri l’atteggiamento dei ministri dell’eurozona, i quali – solitamente in disaccordo su tutto e sempre bisognosi di vertici fiume per prendere una decisione, fosse anche se bere tè o caffè – hanno concesso in quattro e quattro otto un’estensione di due mesi al programma di salvataggio di Atene, proprio perché preoccupati delle stabilità finanziaria del Paese dovuta a incertezze politiche da qui a febbraio. Rispondendo alla richiesta formale avanzata dal governo ellenico alla Troika, Jeroen Dijsselbloem, capo dell’Eurogruppo, hanno pressoché posto la propria garanzia sull’operazione, facendo notare come la Troika stessa abbia bisogno di più tempo per studiare le finanze greche e decidere la fine del programma di salvataggio e l’apertura della nuova linea di credito, la stessa a suo tempo rifiutata dall’Irlanda: «Al momento attuale non ci sono abbastanza basi di valutazione per concludere la review delle finanze pubbliche entro la fine dell’anno, quindi l’Eurogruppo sarebbe favorevole alla concessione di un’estensione tecnica di due mesi alla Grecia».

E stiamo parlando di un Paese che intenderebbe tornare sui mercati internazionali di finanziamento proprio all’inizio del prossimo anno, dopo due programmi di salvataggio costati qualcosa come 240 miliardi di euro per salvare, di fatto, solo le banche tedesche e francesi, all’epoca imbottite in maniera esorbitante di titoli di Stato ellenici: soltanto nel mese di ottobre, quando il governo avanzò l’ipotesi di liberarsi da qualsiasi supervisione finanziaria esterna, il rendimento del decennale cominciò di nuovo a salire, sintomo dell’assoluta mancanza di fiducia dei mercati verso l’esecutivo e le sue politiche fiscali. L’alternativa è quella di una cosiddetta linea di credito back-up, ovvero un fondo garantito dall’eurozona cui Atene può fare ricorso in caso di rinnovata emergenza, ma in questo caso è la Troika ad aver messo un freno, poiché temendo un buco di bilancio da 2 miliardi finora occultato dal governo, ha chiesto allo stesso più informazioni sulla riforma del sistema pensionistico prima di garantire la misura di salvataggio.

Insomma, come vi dicevo, bentornati nel 2012. E attenzione, perché per la prima volta dal salvataggio stiamo assistendo a un’inversione della curva dei rendimenti, come ci mostra il grafico a fondo pagina, ovvero lo yield a tre anni prezza più di quello a dieci anni, esattamente l’8,321% e con un aumento intraday di addirittura 183 punti base, un pessimo segnale che ci dice una cosa sola: essendo il decennale per la gran parte detenuto dalla Bce come collaterale per i soldi facili che hanno gonfiato il mercato azionario greco finora, la parte più a breve scadenza è in mano al mercato, a quei traders che da ieri disperatamente cercano di disfarsi di quella carta da parati finalmente tornata tale dopo le ubriacature da ripresa in atto degli ultimi mesi.

E pensare che era solo il 14 novembre, un mese fa, quando il Corriere della Sera e tutti gli altri grandi organi di stampa ci vendevano il fatto che da Eurostat arrivava la conferma di come la Grecia fosse uscita dalla recessione, dopo sei anni durissimi che hanno fiaccato Atene. I numeri del terzo trimestre – sia pure provvisori – mostravano che l’economia del Paese è cresciuta dello 0,7%, dato positivo che si aggiunge a un +0,8% registrato nel primo trimestre e a uno +0,3% nel secondo trimestre, secondo il nuovo sistema di misurazione dell’economia adottato per la prima volta dall’istituto greco di statistica Elstat che ha rivisto la serie storica fin dal primo trimestre del 1995. Balle, solo balle certificate dall’Eurostat, come vi ho detto e dimostrato fin dal primo giorno: in sei anni di recessione il Pil greco si è contratto di circa il 25% e il tessuto economico e di welfare è devastato come dopo una guerra, l’unica cosa che ha funzionato è stato il carry-trade e le prezzature gonfiate alla Borsa di Atene, cannibalizzata da investitori esteri che hanno già realizzato e ora stanno tornando a casa con le tasche piene di euro facili. I danni, come al solito, toccherà pagarli ai cittadini greci in termini di tenore di vita e ai contribuenti europei attraverso nuovi esborsi per i fondi di salvataggio.

 

E attenzione, perché quanto sta dispiegandosi a livello di economia globale potrebbe tramutare il caso Grecia in una passeggiata al parco, tra Giappone inchiodato dalle sue politiche di stimolo che stanno solo esportando deflazione a causa della yen troppo debole, petrolio ai minimi con le conseguenze di cui vi ho parlato diffusamente la scorsa settimana e la Cina in netta contrazione della crescita, con le Borse di Shanghai e Hong Kong letteralmente schiantate nelle chiusure di ieri mattina, sulla scorta delle indiscrezioni riguardo al fatto che, nel corso della Central Economic Work Conference cominciata ieri, il governo starebbe ufficialmente tagliando le previsioni di crescita per il 2015 al 7% invece del precedente 7,5%.

Il 7% è sufficiente a creare 10mila nuovi posti di lavoro, assicurando un livello occupazionale sufficiente per l’economia del paese, ma le grandi banche cinesi stanno contemporaneamente premendo sulla People’s Bank of China per poter aumentare i prestiti a causa di profitti sempre più risicati e per abbassare la percentuale di depositi accantonati in caso di problemi finanziari (reserve-requirement-ratio), un altro indicatore importante del rallentamento dell’economia asiatica dopo le troppe bolle del credito garantite dai governi precedenti e ora a forte rischio di esplosione.

Volete altri due indicatori di sofferenza, due dei miei, quelli un po’ fuori dal comune cui però mi affido con fiducia? Eccoli, il primo è il dato di vendita di McDonald’s negli Usa a novembre, il peggiore da dieci anni a questa parte come ci mostra il primo grafico, sintomo che nel Paese che nel terzo trimestre ha postato un dato di crescita turbo (fabbricato a tavolino, come vi ho dimostrato) e che ha beneficiato di tre cicli di Qe, sempre meno gente può permettersi un pasto da 2 dollari. Secondo, il Baltic Dry Index, letteralmente schiantatosi sotto quota 1000 per la prima volta dal settembre 2008, come ci mostra il secondo grafico, sintomo che l’economia globale è ferma esattamente come i cargo che trasportano merci via mare (petrolio escluso). Evviva la ripresa globale, evviva il Qe!

 

 

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