Il prezzo del petrolio ai minimi comincia a fare del male, anche ai big. ConocoPhillips, una delle maggiori società petrolifere statunitensi, ha tagliato gli investimenti previsti per l’anno prossimo del 20% rispetto a quest’anno, a 13,5 miliardi di dollari. La riduzione riflette i minori investimenti sui grandi progetti, nonché il rinvio degli investimenti nei giacimenti non convenzionali in Nord America (shale oil e shale gas). Il management ha sottolineato l’intenzione di approcciarsi in modo prudente agli investimenti a seguito delle attuali condizioni di mercato con il prezzo del petrolio che ha raggiunto i livelli più bassi da 5 anni: Brent a 65 dollari al barile e Wti a 62,7 dollari al barile (circa -40% negli ultimi sei mesi): gli esperti di Equita evidenziano che la riduzione degli investimenti da parte di ConocoPhillips è superiore rispetto alle aspettative e che la pressione sul petrolio riduce la visibilità delle stime per il 2015 e per il 2016.



E quella del gigante Usa potrebbe essere solo la prima di una serie di interventi di riduzione dell’attività nell’ambito petrolifero e del gas, settore che a livello globale vede progetti di esplorazione per 150 miliardi di dollari che ora appaiono a forte rischio di ridimensionamento, visto che il prezzo così basso non li rende più vantaggiosi e va a intaccare i margini di break-even operativo.



Avendo finora sfruttato tutti i giacimenti scoperti nell’ultima decade, le grandi aziende stanno cercando di avere accesso a nuove fonti più difficili e dispendiose da raggiungere, come ad esempio sotto il livello del mare, ma contemporaneamente sono saliti e di parecchio anche i costi per il materiale e la nuova tecnologia necessaria a queste attività extra-ordinarie. Il prossimo anno le compagnie prenderanno decisioni finali di investimento su un totale di 800 progetti legati a gas e petrolio per un controvalore di 500 miliardi di dollari, pari a 60 miliardi di barili di petrolio, stando ai dati dell’azienda di consulting norvegese Rystad Energy, ma stando a una media ponderata delle proiezioni, il prezzo nel 2015 dovrebbe essere in media a 82,50 dollari al barile, fatto che comporterebbe la non approvazione di un terzo della spesa, pari a un quinto del volume di produzione.



Nel suo report, Rystad Energy fa notare come «a 70 dollari al barile, metà dei volumi totali è a rischio». Di più, sul totale dei progetti in attesa di decisione finale nel 2015, un terzo sono cosiddetti “non convenzionali”, ovvero il fracking utilizzato per raggiungere i giacimenti rocciosi di petrolio e gas shale: di questi 20 milioni stimati di barili, circa la metà sono però basati nei giacimenti sabbiosi del Canada e in quelli del Venezuela. Quest’ultimo, come vi ho detto la scorsa settimana, è talmente disperato per il crollo del prezzo da essere costretto a vendere debito petrolifero a metà del suo valore facciale a banche d’investimento, quindi difficilmente potrà avere margine di operatività come si stimava soltanto a inizio anno: l’altro giorno il bond venezuelano scadenza 2027 prezzava 45 centesimi sul dollaro, il livello più basso dal 1998, mentre il credit default swap a 1 anno toccava il massimo record di 4830 punti base, segnalando il rischio imminente di default o ristrutturazione, come ci mostrano i due grafici qui sotto.

Ma anche il Canada presenta non poche criticità, visto che le tecniche estrattive per operare nei giacimenti sabbiosi sono molto care e complesse, quindi le prime destinate a essere quantomeno bloccate o rimandate in un ambiente di profitti erosi dal prezzo troppo basso: non a caso, recentemente il gigante Total a posposto un progetto esplorativo da 11 miliardi di dollari a Joslyn in Alberta. Lo stesso progetto Rosebank di Chevron nel Mare del Nord è a forte rischio, quantomeno di approvazione nei primi tre trimestri del prossimo anno: «Questo progetto nasce per essere economicamente fruttuoso con il barile a 100 dollari, quindi ai livelli attuali sicuramente verrà bloccato», ha sentenziato Bertrand Hodée, analista alla Raymond James di Parigi.

C’è poi il mercato dei bond energetici ad alto rendimento, settore che pesa per il 20% del totale di quel mercato, i cui spread stanno volando alle stelle, avendo toccato martedì la quota record di 880 punti base, contagiando l’intero comparto dell’high yield e del credito, come ci mostrano i due grafici a fondo pagina: qualche analista comincia a chiedersi, al netto di questa situazione, se siamo alla vigilia del disvelamento dei famosi timori di BlackRock verso i suoi potenziali problemi di liquidità. E anche le reazione del mercato alla debolezza del petrolio comincia a preoccupare, visto che nel suo ultimo report Deutsche Bank dice chiaro e tondo che «l’attuale scollamento tra gli assets fortemente penalizzati del settore energetico e la reazione marginale a questo degli indici di mercato più ampi è assolutamente inconsistente con dinamiche macro. O anche il settore energetico rimbalza con una certa entità o trascinerà con sé gli altri indici di mercato al ribasso. Le eccezioni a questa dinamica sono rare».

In effetti, qualcosa non funziona prendendo in esame gli indici del cosiddetto broad market, ovvero equities e credito, i quali hanno ampiamente ignorato quanto sta accadendo al settore energetico. Sullo Standard&Poor’s 500 i titoli del settore energetico sono in calo del 19% da giugno, mentre l’indice nel suo complesso è in aumento del 5,8% e ai massimi di tutti i tempi.

Passiamo poi al credito, ovvero alle obbligazioni energetiche che hanno visto ampliamenti dello spread di 50 punti base nel IG e addirittura di 310 nell’alto rendimento, contro il +20 e +60 punti base dei bonds non energetici. Tenendo conto del fatto che il settore energetico rappresenta il gruppo singolo più grande dell’alto rendimento, il secondo dell’IG e il terzo dello Standard&Poor’s, quanto sta accadendo appare decisamente strano: come se qualcuno sapesse che questa guerra petrolifera è nient’altro che una messa in scena con tutti gli attori d’accordo.

Ma è davvero così? Ci arriveremo a breve, nel frattempo conviene prendere nota di una previsione di Deutsche Bank nel suo report, ovvero che «i default nel settore dei bond junk o ad alto rendimento hanno toccato il loro massimo per questo ciclo in settembre con un tasso dell’1,7%, mentre prevediamo per il prossimo anno un tasso del 3,5%». Insomma, un bel raddoppio dei casi di default nel settore dell’alto rendimento: non male, anche se a me pare una previsione ottimistica se non cambiano le dinamiche in atto. Ma ormai tutte le principali banche hanno scatenato i loro analisti per delineare quadri allarmanti della situazione, non ultima Bank of America, a detta della quale non solo l’Opec non esiste più come cartello che abbia un senso significativo di intervento, ma addirittura dobbiamo prepararci a un calo del prezzo in area 50 dollari al barile poiché le forze di mercato colpiranno duramente i produttori più deboli, leggi il Venezuela.

 

 

Di più, i cambiamenti rivoluzionari in atto nell’industria energetica mondiale schianteranno al ribasso anche il prezzo del gas naturale liquefatto, creando una sorta di cap per i prezzi destinato a durare anni e offrendo all’Europa fonti di approvvigionamento del gas più convenienti delle attuali. Per Francisco Blanch, capo del dipartimento commodities della banca Usa, «l’Opec si è di fatto dissolta dopo non essere riuscita a stabilizzare i prezzi alla scorsa riunione. Le conseguenze di questo saranno profonde e di lunga durata». Per Blanch, «d’ora in poi sarà il libero mercato a determinare i prezzi, aprendo le porte a un’era di selvaggi e repentini sbalzi e trading disordinato di cui beneficeranno solo gli Stati produttori del Medio Oriente con riserve ampie come l’Arabia Saudita, mentre i membri periferici come Nigeria e Venezuela saranno lasciati al loro destino».

Anche per Bank of America il settore dello shale sta già patendo, visto che il 15% dei produttori Usa stanno perdendo soldi al prezzo attuale del barile, mentre se si scenderà sotto quota 55 dollari sarà addirittura la metà ad andare sott’acqua, per primi gli operatori nel dipartimento del Permian, quello con costi maggiori e che potrebbero per primi tagliare la produzione. Vero? Falso? Difficile dirlo, visti gli interessi in gioco e il fatto che la rivale storica di Bank of America, ovvero Citigroup, da settimane pubblica report nei quali si dice certa che il settore dello shale gas può reggere anche un punto di break-even vicino ai 40 dollari, soprattutto grazie alle copertura di hedging fatte attraverso il mercato futures e valide per la gran parte dei casi per tutto il 2015. Per BofA, invece, ci vorranno sei mesi per far sparire dal mercato l’eccesso di un milione di barile al giorno – portando come conseguenza appunto il prezzo in area 50 dollari – e questo perché sia domanda che offerta non sono elastiche nel breve termine: questo, di fatto, dovrebbe creare i presupposti per una nuova carenza e concretizzarsi in un rimbalzo in area 85-90 dollari al barile nella seconda metà del prossimo anno.

Sempre nel report si evidenzia come il crollo del prezzo del petrolio equivarrebbe a uno stimolo da 1 triliardo di dollari per l’economia globale, praticamente un taglio delle tasse da 730 miliardi di dollari per il prossimo anno, anche se gli effetti di questo sviluppo sono complessi, con vincitori e vinti. Perché, si fa notare, se il calo dovesse proseguire potrebbe tramutarsi in qualcosa di negativo poiché innescherebbe crisi finanziarie sistemiche nel paesi produttori. E poi, ciò che vi dicevo la scorsa settimana, ovvero il rischio di un drenaggio della liquidità: per Barnaby Martin, capo dipartimento europeo della banca, «i mercati mondiali degli assets potrebbero dover affrontare uno stress test dopo la decisione della Fed di ritirare il programma di stimolo. La nostra più grossa preoccupazione è proprio la fine del ciclo della liquidità, poiché la Fed è pronta ad alzare i tassi e ciò che dal 2009 a oggi è stata ricerca del rendimento potrebbe tramutarsi in qualcosa di diametralmente opposto».

Questo anche perché, stando a calcoli di BofA, un Qe composito di Giappone ed Europa coprirebbe comunque soltanto il 35% dello stimolo globale perso dopo il “taper” della Fed, creando un pericoloso iato per i mercati, tanto più che gli effetti della fine del Qe statunitense devono ancora sostanziarsi, essendoci in circolo ancora liquidità residua: «Pensiamo che, essendo improbabile che la Fed possa riattivare il Qe, la fase in cui stiamo entrando vedrà le cattive notizie tornare a essere tali e la volatilità destinata a crescere». Questo in un mondo dove il 56% del Pil globale e l’83% delle equities a flottaggio libero nelle Borse mondiali sono supportati attualmente da tassi a zero, praticamente un mondo di tossicodipendenti da stimoli delle banche centrali dove metà di tutti i bond governativi hanno rendimenti inferiori all’1% e 1,4 miliardi di persone stanno vivendo in un mondo a tassi negativi in un modo o nell’altro.

Insomma, un bel guaio: o forse, questa crisi è arrivata al momento giusto per far sgonfiare la mega-bolla senza troppi botti. Una cosa è certa, lunedì prossimo il Dipartimento per l’Energia statunitense terrà un incontro trilaterale sul tema petrolio con i produttori del Nord America, il tutto per «definire aree di cooperazione energetica e rispondere alla visione strategica della comunità energetica del Nord America». Insomma, funzionari Usa, canadesi e messicani potrebbero gettare le basi per un’Opec americana, calcolando che insieme i tre paesi producono 20 milioni di barili al giorno di petrolio e quindi possono tranquillamente creare qualche preoccupazione in casa saudita e nei corridoi del quartier generale di Vienna, visto che i Paesi aderenti all’Opec producono 30 milioni di barili al giorno, ma grazie allo shale oil il gap si sta comprimendo sempre di più e più velocemente.

Inoltre, tutti e tre i paesi basano la loro forza su fonti non convenzionali: il Canada sui già citati giacimenti sabbiosi, il Messico sull’esplorazione marina e gli Usa sul fracking per il petrolio di scisto, quindi massima concordanza e preoccupazione per prezzi troppo bassi. Il problema, però, sta alla radice: ovvero, dal 2009 a giugno di quest’anno i prezzi del petrolio sono rimasti relativamente elevati semplicemente perché qualcuno continuava a vendere la barzelletta della ripresa in corso e di una crescita economica che seppur anemica si stava riattivando. Balle, ora sappiamo con certezza che il crollo del prezzo del petrolio del 40% in meno di quattro mesi è un chiaro segnale di altro: ovvero, che la bolla nella prezzatura degli assets creatasi tra il 2009 e quest’anno grazie ai soldi a pioggia sta per scoppiare. Non a caso, altre commodities stanno seguendo il destino del petrolio, come il rame che ha appena rotto al ribasso un pattern che durava da cinque anni e sta accelerando il calo: proprio come la dinamica dell’oro nero.

Cosa ci dice questo? Che forse andrebbe messo in preventivo un epilogo simile anche per altre assets classes, leggi le equities, leggi il mercato azionario ora ai massimi ma completamente scollegato dai fondamentali. Come ha funzionato questa dinamica? Semplice, le banche centrali – soprattutto la Fed attraverso lo Zirp e il Qe – nel tentativo di stimolare l’inflazione hanno ottenuto l’esatto contrario, visto che stampare moneta non crea inflazione, bensì deflazione nei beni di consumo, oltre a un eccesso di capacità produttiva, come nel caso del petrolio. A quel punto si configura ultra-domanda sul mercato, la quale pone pressione al ribasso sui prezzi e spinge le banche centrali a stampare ancora di più per cercare di alzare l’inflazione: un circolo vizioso che non fa altro che garantire nuovo denaro a costo zero nelle posizioni già esposte a leva di chi sta speculando. Incoraggiando operazioni speculative, i programmi di stimolo hanno di fatto colpito l’investimento in lavoro, trasformando imprenditori in speculatori dei loro stessi assets e prodotti e facendo crollare il valore dell’occupazione sul posto di lavoro e calare i salari e i consumi di conseguenza. Questo non fa altro che indebolire la domanda e quindi porre pressione al ribasso ulteriore sulla dinamica dei prezzi dei beni di consumo e così via, strizzando i costi ai massimi per rientrare nei margini, tagliando occupazione e stipendi e arrivando al paradosso della catena WalMart che organizzava eventi benefici per offrire generi alimentari ai propri dipendenti che pagava troppo poco per poter vivere dignitosamente.

Bene, la dinamica che stiamo vedendo in questi giorni per il petrolio è la perfetta illustrazione di cosa succede quando le banche centrali promuovono la speculazione sulle materie prime e la loro produzione, un boom creato su finanziamento virtualmente libero e illimitato che si trasforma poi in una bomba ticchettante quando il valore del collaterale collassa.

 

(1- segue)