La Cgil e la Uil hanno fatto il loro sciopero, con tanto di cortei e comizi come nei bei (?) tempi andati. I gruppuscoli estremisti si sono scontrati con la polizia come accade da quarant’anni a questa parte. La Germania bacchetta (nonostante gli abbracci tra i due presidenti e gli inviti a superare i pregiudizi). La Bce avverte che l’Italia rischia la procedura d’infrazione per aver violato la regole del debito. L’Istat certifica che siamo ancora in mezzo alla recessione perché la produzione industriale continua scendere e offusca i timidi segnali di speranza affiorati nelle settimane scorse. I giornali stranieri scrivono (come d’abitudine) pezzi al veleno sull’Italia caotica, inaffidabile e soprattutto corrotta (ieri l’International New York Times per la penna di Elisabetta Povoledo, già collaboratrice della Rai ed esperta in belle arti, ha pubblicato una delle più vaste collezioni di luoghi comuni partendo dall’inchiesta romana chiamata “Mondo di mezzo”). Matteo Renzi viene infilzato in Parlamento dalla sinistra Pd e dai dalemiani che hanno giurato vendetta tremenda vendetta. Insomma, il 2014 si sta chiudendo nel peggiore dei modi, con uno scenario che nessuno aveva immaginato così fosco. Come mai?
Può darsi che in quest’autunno si sia realizzata una perfida congiunzione astrale. Molto più probabile è che siano arrivati al dunque problemi non risolti e forse non risolvibili tutti insieme nello stesso tempo. Non dimentichiamo che in primavera Renzi aveva presentato un calendario preciso, una riforma al mese. Siamo a Natale e il bilancio è in rosso. Il Jobs Act indubbiamente è una riforma importante, contro la quale sono scesi in piazza Cgil e Uil, tuttavia resta ancora soltanto sulla carta. La riforma viene cento volte fatta e disfatta come la tela di Penelope alla quale è appesa anche la riforma del Senato. Quanto al bilancio pubblico si tratta di un patchwork, una collezione di pezze dai mille colori.
L’Unione europea e la Bce mettono il dito sull’eccesso di deficit spending destinato a far salire il debito anche nel 2016 quando finalmente dovrebbe fermarsi. Non hanno torto. Anche gettando alle ortiche la vecchia polemica sull’austerità, è evidente che il governo ha deciso di passare la nottata, sperando che prima o poi la ripresa (sia pur una ripresina) ci sarà. Così tutto slitta a primavera, quando bisognerà presentare il Documento di economia e finanza, ma anche quando probabilmente avremo un nuovo presidente della Repubblica che aprirà una fase politica diversa.
Se così stanno le cose, il vero punto debole di Renzi è che, partito per rottamare tutti e riformare tutto, si è ridotto al piccolo cabotaggio, a galleggiare su una crisi non affrontata con la necessaria determinazione e tempestività. Il suo errore non è aver concesso gli 80 euro, ma non averli inseriti in una cornice più vasta e coerente che avrebbe dato loro un senso diverso, con un impatto probabilmente più efficace sulla stessa domanda interna. Quella cornice, fuor di metafora, si chiama fisco.
È evidente che se la pressione fiscale complessiva (che è fatta di imposte sui redditi, sui consumi, sulle case, sui risparmi, sui patrimoni, sull’immondizia, sull’illuminazione stradale, sui tabacchi, sulla benzina e via via balzello dopo balzello) resta la stessa o addirittura cresce, mentre non c’è ripresa e il lavoro viene minacciato, la scelta più razionale è conservare il gruzzoletto per far fronte a tempi ancora peggiori.
Lo stesso errore Renzi l’ha compiuto sul mercato del lavoro. S’è fatto inchiodare in una discussione vecchia e per lo più oziosa sull’articolo 18, invece di rilanciare sull’assegno di disoccupazione per tutti, sulla formazione permanente, sull’Agenzia del lavoro, in altre parole sulla parte costruttiva del provvedimento. È troppo debole? Si poteva fare di più? Forse, ma non se n’è nemmeno dibattuto pubblicamente, accecati dagli odi interni alla sinistra e dal conflitto ideologico.
Certo, per fare di più sul fisco e sul mercato del lavoro c’è bisogno di risorse, mettendo mano alla spesa pubblica corrente (si tratta non solo di ridurla, ma di riqualificarla). Su questo hanno ragione i critici come Francesco Giavazzi. Anche se occorre stare attenti a non farsi del male tagliando ciò che contribuisce a sostenere la domanda interna per consumi e per investimenti.
Allora, bisogna chiedersi che fine ha fatto la spending review, dove sono nascosti i 25 dossier lasciati da Carlo Cottarelli? Era tutta carta straccia? Una collezione di desideri impossibili? O magari politicamente ingenui come l’intervento sulle pensioni medio-alte che ha segnato la fine del super commissario? Può darsi, ma non è dato saperlo, i documenti non sono pubblici, è impossibile discuterne apertamente.
Con il passare dei mesi, è apparsa tutta la debolezza di una gestione del governo a un tempo stesso egocentrica e debole. Renzi non si fida di nessuno, tanto meno del suo partito. Con quel che accade in Parlamento, come dargli torto? Però l’idea di un colpo di forza con una legge elettorale approvata alla velocità della luce non è passata. La vischiosità politica ha vinto. E il capo del governo non è stato in grado di cambiare spalla al fucile. Quanto alla politica economica, il tourbillon di amici ed esperti, ultimo dei quali il manager Andrea Guerra, non è stato d’aiuto.
Dietro i guai di questo autunno, dunque, non ci sono solo le tempeste geopolitiche e le meschine ritorsioni europee, ma anche lo stile di governo di Renzi che, con il passare dei mesi, è diventato determinante, tanto da trasformarsi in nuovo senso comune. Renzi non passa dalle parole ai fatti. È questo il refrain che si sente a Roma e a Milano, come a Francoforte e a Londra. L’affabulatore che non realizza. Un ciarliero vorrei, ma non posso. È un’immagine eccessiva e non del tutto veritiera. Ma l’ha creata lo stesso capo del governo con il suo comportamento.
Ogni nuovo anno si usa prendere un impegno con se stessi; ebbene il 31 dicembre, mentre stappa lo spumante, Renzi dovrebbe dire ad alta voce: adesso niente fumo, solo arrosto. Le dimissioni di Giorgio Napolitano riportano in primo piano la politica come manovra di palazzo, ma Renzi dovrebbe resistere e imporre un metodo diverso: l’accordo preventivo su una figura di garanzia, sfuggendo alla tentazione del presidente amico ed evitando la guerriglia dei grandi elettori. Per poi concentrarsi finalmente sull’economia, cioè su quel che importa oggi, prima di tutto, agli italiani.