“Siamo una Commissione politica e lo abbiamo già dimostrato proprio con la vicenda delle leggi di bilancio di Italia e Francia. Per loro abbiamo agito in modo assolutamente politico, non burocratico”. Sono le parole di Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione Ue, in un’intervista pubblicata su alcuni quotidiani europei tra cui Avvenire. Per Juncker, “dobbiamo prendere atto che l’intera situazione economica anche a livello globale è drammaticamente peggiorata”. Ne abbiamo parlato con Alberto Bagnai, professore di Politica economica all’Università D’Annunzio di Pescara.



Per Juncker, “se c’è un Paese che non può lamentarsi questo è l’Italia”. E’ d’accordo con lui?

Non sono d’accordo perché l’Italia è continuamente penalizzata e rimproverata dalla Commissione Ue nonostante abbia fondamentali macroeconomici di gran lunga migliori di quelli di tanti altri Paesi. Mi riferisco in particolare al fatto che il nostro governo ha un rilevantissimo avanzo primario e che la nostra esposizione debitoria verso l’estero su contratti non ridenominabili in valuta nazionale è particolarmente contenuta. Trovo del tutto fuori luogo questo come altri atteggiamenti di Juncker.



Perché di recente i richiami all’Italia di Merkel, Draghi e Juncker si sono moltiplicati?

Di queste tre persone l’unica che ha una qualche legittimità a esprimersi, anche se lo fa male, è Juncker perché è il presidente della Commissione Ue che è l’organo al tempo stesso legislativo ed esecutivo dell’Unione. La signora Merkel non ha alcun titolo per dare giudizi sull’operato del governo italiano, in quanto è una cittadina di un altro Paese e non ha una carica che le permette di esprimere una censura.

La Merkel non ha il diritto d’opinione?

Il Cancelliere ha il diritto d’opinione, ma noi abbiamo il diritto di non tenerne conto. Draghi inoltre è il presidente di un organismo che rivendica la sua indipendenza dai governi nazionali e da quello dell’Ue, ma l’indipendenza deve essere una relazione reciproca. Se la Bce è indipendente dall’Italia è vero anche il contrario, e quindi Draghi non dovrebbe nemmeno permettersi di darci dei consigli.



Come vede la situazione dell’Italia in questo momento?

Il punto è che cosa accadrà se in Italia cominciano a manifestarsi tensioni sociali e l’euro si palesa come insostenibile. Da tutti gli studi risulta concordemente che, nel caso di una fuoriuscita dall’euro, il nostro Paese avrebbe dei costi da pagare ma inferiori agli altri, e dei benefici da ottenere che sono superiori a quelli degli altri. Ciò preoccupa Bruxelles perché senza l’Italia l’euro non continuerebbe a esistere.

 

C’è un legame tra i richiami di Juncker all’Italia e quanto sta avvenendo in Grecia?

Sento spesso parlare di contagio, una categoria che appartiene più al dominio della medicina che a quello dell’economia. L’Italia non ha rilevanti esposizioni verso la Grecia, e quindi non c’è nessuna ragione di temere che se quest’ultima fallisse salterebbero anche le nostre banche. Un conto è un effetto politico, per cui una situazione critica della Grecia costituisce un campanello d’allarme in grado di suscitare consapevolezza e moti di ribellione in altri Paesi. Ma da un punto di vista economico rimane il fatto che la Grecia è un Paese piccolissimo. Se nel 2010 Bruxelles avesse speso per salvare Atene un decimo di quello che i Paesi del Nord hanno speso per salvare le loro banche private, il problema greco non sarebbe mai sorto.

 

I fondamentali dell’Italia sono buoni, ma il nostro governo sta facendo le riforme?

Il governo italiano applica la retorica delle riforme. Esiste un consenso pressoché unanime sul fatto che la riforma del lavoro non è una priorità per la nostra economia. Renzi si sta dando da fare per sembrare attivo agli elettori, in modo da mantenere il potere nel caso in cui si andasse a elezioni anticipate. Il risultato delle ultime elezioni amministrative rende però poco probabile questo scenario, perché Renzi ha capito che rischia.

 

Se la riforma del lavoro non è una priorità, perché la produttività del lavoro in Italia è più bassa rispetto al resto d’Europa?

C’è una letteratura scientifica molto consolidata che chiarisce come la bassa produttività del lavoro in Italia dipenda proprio dalle riforme attuate per introdurre una maggiore flessibilità. Quest’ultima è servita solo per permettere un potere di ricatto sui lavoratori e poterli pagare di meno. Quando il lavoro costa meno, l’imprenditore ne usa di più. Ciò ha determinato un’alterazione del rapporto ottimale tra capitale e lavoro. In pratica le aziende italiane si sono spostate verso produzioni a bassa intensità di capitale e in questo modo hanno compromesso la produttività dei lavoratori.

 

(Pietro Vernizzi)