Doveva essere privatizzata, ma ancora è al 100% pubblica. Ha investito in Alitalia, per “salvare” i capitani coraggiosi, e ora arriva l’aumento delle tariffe. Questa è Poste Italiane, un’enorme azienda statale con oltre 100 mila dipendenti. L’incremento delle tariffe è stato deciso dall’Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni con la Delibera 728 del 2013, e quindi era ampiamente scontato, ma è entrato in vigore dal 1° dicembre scorso. Tale delibera riguardava la determinazione delle tariffe massime dei servizi postali rientranti nel servizio universale. Quel che stupisce è la portata dell’aumento, dato che la posta prioritaria retail passa da 70 a 80 centesimi di euro, pari a un incremento del 14%, mentre la Raccomandata sale da 3,6 a 4 euro, con un aumento dell’11%.
Tale incremento comporta due gravi problemi: uno direttamente legato all’aumento delle tariffe per l’utente finale, che non ha possibilità di scelta; uno indiretto, collegato alla concorrenza che gli operatori alternativi a Poste Italiane dovranno fronteggiare. Essendo un servizio universale, tali tariffe dovrebbero compensare i costi del servizio che risultano essere superiori ai ricavi per tali servizi. È quindi giustificato l’aumento?
Sì, nel momento in cui il servizio universale fosse assegnato tramite una gara trasparente e aperta a tutti gli operatori, nazionali e internazionali. Tuttavia questo non è mai accaduto, e la differenza negativa tra ricavi e costi operativi potrebbe dunque dipendere dall’inefficienza dell’operatore incumbent. Se Poste Italiane avesse del personale in eccesso nel settore postale, non in quello finanziario, l’aumento delle tariffe andrebbe a discapito degli utenti per “salvare” gli sprechi dell’azienda pubblica. Nel momento in cui si assegna direttamente il servizio universale a Poste Italiane, senza una gara, non si potrà mai sapere se l’operatore sia inefficiente e se le tariffe devono coprire questa inefficienza.
Succede esattamente lo stesso nel trasporto pubblico locale. Prendiamo il caso di Atac, a Roma, che è gestita dal Comune di Roma che assegna senza gara il servizio all’azienda comunale stessa. Senza gara, gli sprechi e le inefficienze continueranno a esserci e non potrà mai essere chiaro se i contribuenti, tramite sussidi, e gli utenti, tramite tariffe gonfiate, debbano pagare un eccesso di dipendenti pubblici.
In Poste Italiane oltre a queste problematiche, s’innesta anche il processo di privatizzazione, che a oggi è bloccato. La prima versione di “privatizzazione” in realtà era una finta privatizzazione. Infatti, si voleva vendere una quota di minoranza del gruppo Poste Italiane sul mercato e ai lavoratori, senza cedere tuttavia la maggioranza. Dunque tale operazione era una cessione di quote di minoranza, ben lungi dall’essere una vera privatizzazione.
L’arrivo di Caio, ottimo manager del settore privato, ha rallentato questo processo, ma non è ancora chiaro quello che potrà succedere nel prossimo futuro. Quel che è certo, viste le finanze sempre più precarie dello Stato italiano, è che c’è bisogno di una privatizzazione certa e reale, in modo da massimizzare i ricavi. Una “privatizzazione all’italiana”, vale a dire una cessione di quota di minoranza, porterebbe a minori incassi anche per le casse pubbliche.
Senza liberalizzazione, vale a dire senza gare a evidenza pubblica, gli sprechi continueranno a esserci nel settore e gli utenti dovranno sopportare aumenti delle tariffe forse non giustificati. Non c’è più tempo per aspettare e questo il Governo Renzi lo deve comprendere in fretta. Liberalizzazioni e privatizzazioni non sono né di destra, né di sinistra, ma l’unica soluzione per ridurre gli sprechi pubblici.