Le cronache di questi giorni ci dicono che l’Olanda ha rimpatriato da New York 130 tonnellate dei suoi lingotti per l’equivalente di 5 miliardi di dollari. A inizio d’anno, la Bundesbank ha annunciato un piano pluriennale (2014-2020) per rimpatriare le 674 tonnellate del suo oro, per un valore di oltre 27 miliardi di dollari, dai depositi esteri, particolarmente New York e Parigi. Nel corso dell’estate, “certe pressioni politico-diplomatiche” su Berlino hanno per ora convinto il governo a non riscattare l’oro depositato a New York. Il 30 novembre, gli svizzeri hanno votato vari referendum per ridurre l’immigrazione e i benefici fiscali agli stranieri, ma soprattutto per obbligare la banca centrale della Confederazione a convertire in oro un quinto dei suoi asset valutari e rimpatriare i lingotti per ora depositati nel Regno Unito e Canada. In Francia, il Fronte Nazionale promette di seguire la stessa politica di rimpatrio dell’oro francese dall’estero.
È piuttosto evidente che il più grande depositario di oro, gli Usa, seguito da Canada, Regno Unito e Francia, non intendono cedere alle richieste dei paesi proprietari dell’oro giallo. Intanto, la Russia ha condotto una politica di progressivo spostamento delle proprie riserve valutarie dal “petrodollaro” al “petro-oro”, superando quest’anno le 1000 tonnellate di oro fisico. Da parte della Cina, anche in vista dell’internazionalizzazione della sua moneta, le riserve d’oro fisico sono cresciute negli ultimi anni fino a raggiungere 7-10000 tonnellate (ma nessuno ha dati verificabili). Questa nuova corsa all’oro ha una sola spiegazione plausibile: la paura. Appunto, la paura che il sistema finanziario incentrato sul dollaro, e fino a poco tempo fa sostenuto dal petrodollaro, stia entrando in una crisi irreversibile.
Allo stesso tempo, leggiamo cronache sul declino del prezzo dell’oro nero (petrolio) e anche del gas naturale. La tesi più accreditata vorrebbe che con la regia degli Usa si tenti di mettere in difficoltà la sostenibilità economica della Russia e dell’Iran. Sicuramente la combinazione di sanzioni economiche e la brusca discesa del prezzo dell’energia hanno un impatto sulla vita economica dei due paesi che all’evidenza si piegano ma non si spezzano. Quindi i fantasmi del cambio di regime indotto dalle condizioni esterne sono per ora sfumati.
Tuttavia, se inizialmente una strategia americana di manipolazione del prezzo del petrolio avrebbe avuto un senso, oggi sembra che il filo conduttore sia sfuggito dalle dita degli strateghi. Infatti, la discesa del barile sotto i 75 dollari sta mettendo in crisi l’economicità degli investimenti americani nell’estrazione dagli scisti, che era proprio l’arma di Obama contro gli odiati produttori stranieri. Ancor peggio è la situazione se si compara la redditività degli investimenti delle major americane in Iraq – che con bassi investimenti promette comunque una redditività di lungo termine – con quelli necessari a continuare i livelli di estrazione attuali in Arabia Saudita. Sul lungo termine, quest’ultima troverà sempre più difficile finanziare l’estrazione con investimenti esterni. Quindi non potrà che autofinanziare il settore petrolifero. Ma questo significa sottrarre risorse finora impegnate nei petrodollari a sostegno dell’economia americana.
A ben vedere la supposta strategia americana rischia di essere un boomerang. Se a questo si aggiunge che la Russia ha velocemente preso le contromisure con una potente offensiva politico-diplomatica che vede impegnati Putin e Lavrov in riunioni frenetiche con i produttori Opec, e in particolare con l’Arabia Saudita, ma anche con i principali rappresentanti degli stati della Lega araba, il sospetto è che vi possa essere una saldatura di interessi tra i produttori tradizionali contro le novità estrattive americane.
Certo è che alla riunione Opec di settimana scorsa non sono state tagliate le quote di produzione. Ciò significa che il prezzo del barile, con una domanda mondiale piuttosto depressa, potrebbe addirittura scendere sotto i 70 dollari. Un tale scenario renderebbe meno offensivi gli Usa che saranno costretti a importare energia, provocherebbe anche l’aggravarsi della crisi deflazionistica dell’eurozona che è sempre più avvitata in una spirale implosiva, ma farebbe addolcire i toni di paesi come Iran e Venezuela. Il primo ha un target di prezzo di 100 dollari al barile e il secondo di 140-150 dollari. Stretti nella morsa dell’oro nero molti paesi, ma anche gli Usa, dovranno accettare di negoziare tenendo da conto Mosca prima che Riyad. Dopo il 2016, con un nuovo presidente americano e un sensibile ricambio delle leadership degli stati europei, dopo aver avuto la certezza che l’estrazione da scisti sarà stata abbandonata, i produttori tradizionali riporteranno il prezzo ai valori del loro target di sostenibilità.
Certo è che tutti i piani, anche quelli più perfezionati, devono tenere in conto le numerose incognite, anche geopolitiche, del mondo attuale. Non ultima Isis che in qualche modo dovrà far parte dello schema. Inoltre, lo choc che la manipolazione dell’oro nero comporta a livello finanziario globale potrebbe dare dei colpi di coda indesiderati. Un rischio reale è che la potente spinta deflattiva innescata con il crollo del prezzo del barile e le pulsioni della corsa all’oro giallo possano portare a un crac del sistema finanziario nel 2015.
Una data molto delicata è giugno del 2015, quando si addensano una serie di fenomenali e potenti momenti politico-diplomatici e geopolitici: conclusione dei negoziati sul nucleare iraniano; cruciale Consiglio europeo per decidere le riforme dell’Ue e dell’eurozona; elezioni legislative nel Regno Unito e possibili elezioni anticipate in Italia e Germania.