Il semestre italiano di presidenza dell’Unione europea si è chiuso sottotono. Matteo Renzi ha svolto un ruolo fondamentalmente pedagogico nel tentativo di far capire che sarebbe meglio privilegiare la crescita e avere una politica comune nei confronti dell’immigrazione, rimettendo il Mediterraneo al centro della scena. Ma i risultati sono stati modesti. Non è solo colpa sua. È la conseguenza della modestia dell’Europa e della sua classe dirigente, non solo politica. 



Quale innovazione tecnologica, culturale, politica è venuta dal Vecchio continente in tutti questi anni? Il disgelo tra Usa e Cuba è l’ultimo esempio dei grandi cambiamenti nei quali siamo immersi (non tutti positivi, sia chiaro). Ma l’Europa ha sempre giocato un ruolo a dir poco gregario. Su Putin si è divisa anche nell’ultimo consiglio di Bruxelles. Sulla minaccia dell’islamismo radicale balbetta, di conseguenza non è in grado nemmeno di sfidare i musulmani, a cominciare dai molti che vivono in Europa, a fare l’unica cosa che potrebbe davvero isolare i terroristi: denunciarli di fronte ai fedeli prima ancora che alle autorità di sicurezza.



L’Italia in questo scenario potrà anche essere considerata l’allievo discolo, però l’intera classe europea è composta da emeriti somari. Renzi ha giocato in difesa sperando nel contropiede. Ma le sue incursioni, le ripartenze come amano chiamarle oggi i giornalisti sportivi, si sono infrante nel catenaccione nordico guidato dallo stopper tedesco. Ciò vale sia per il passaggio dall’austerità alla crescita, sia (e forse ancor più) per le priorità geopolitiche: l’Italia potrebbe svolgere un compito chiave nella divisione internazionale del lavoro tra i paesi occidentali, ma se lo deve conquistare. E da sola dovrà conquistarsi anche il diritto a non essere soffocata da una politica miope che fa solo gli interessi (fino a quando?) di Berlino.



Renzi, dunque, torna a giocare le sue partite domestiche: chiusa una Legge di stabilità che non resterà certo nella storia, arriva il grande gioco per il Quirinale che si incastona tra le riforme istituzionali e il rilancio dell’economia. Renzi ha davanti a sé il breviario Napolitano. Il presidente della Repubblica, nell’imminenza delle dimissioni, gli lascia alcune indicazioni chiave: un successore di rango, dalle indubbie capacità politiche, scelto con ampio consenso che non intenda sciogliere subito le Camere. Renzi le seguirà? Oggi sembra di sì, ma se finirà nella giungla parlamentare? Beppe Grillo, abile guerrigliero, si è risvegliato dal torpore e ha sparato alcune frecce dalla cerbottana: i suoi candidati di bandiera sono magistrati, tanto per capire dove porterà la campagna propagandistica dei cinque stelle.

Riforma del Senato e legge elettorale sono accomunate dalla sindrome di Penelope. Il continuo fare e disfare della tela sta creando un effetto di noia e ripulsa nell’opinione pubblica sempre più dubbiosa che siano davvero priorità nazionali. Alla fine nessuno crederà che possano trovare soluzione e soprattutto che sia valsa la pena sprecare tanto tempo e tante energie politiche distraendole dalla vera emergenza che, anche nella percezione collettiva, resta quella di rimettere al lavoro l’Italia.

Le oscillazioni del consenso sul premier e sul governo sono direttamente collegate agli alti e bassi della congiuntura, si muovono in altri termini in sintonia con le aspettative di ripresa. Oggi ci sono nuove chance: la svalutazione dell’euro spinge le esportazioni (gli effetti concreti in genere si vedono dopo tre mesi); la caduta del prezzo del petrolio funziona come una riduzione fiscale, finora si tratta di 11 miliardi l’anno che vanno ad aumentare il potere d’acquisto e a ridurre i costi di produzione; infine il Quantitative easing della Bce dovrebbe scattare tra febbraio e marzo, alleggerendo il peso dei titoli pubblici da collocare sul mercato. 

Per cogliere queste opportunità che vengono dall’esterno, occorre agire sui fattori interni. Finora Renzi ha toccato soprattutto il fattore lavoro, con il bonus di 80 euro e con il Jobs Act. Adesso c’è bisogno di un più forte impulso alla domanda e di spingere anche il capitale perché il grande buco di questi anni, come denuncia da tempo la Banca d’Italia, viene dagli investimenti più che dai consumi.

In concreto, bisogna ridurre la pressione fiscale e offrire un pacchetto di stimoli domestici vista la modestia di quelli europei del pacchetto Juncker. Per questo, inutile girarci attorno, Renzi deve trovare più spazio nel bilancio pubblico. Dall’Ue ha ottenuto una tregua fino a marzo, quando dovrà varare il Documento di economia e finanza. Di qui ad allora, metta al lavoro il brain trust di palazzo Chigi e quello di via XX Settembre per tirar fuori nuove idee.

E l’Ue? Se Renzi sarà riuscito a risolvere la sciarada del Quirinale, potrà andare alle elezioni l’anno prossimo e assicurarsi una maggioranza in Parlamento. Il rischio instabilità provocherà una bufera sui mercati? Forse, ma oggi l’ombrello della Bce potrà evitare un nuovo 2011. È chiaro che il capo del governo farà una serie di concessioni elettoralistiche, pericolose per la credibilità economica dell’Italia. Tuttavia un’eventuale chiara vittoria che assicuri governabilità metterebbe tutti a tacere, Juncker e la Merkel compresi. 

Se invece si perderà nel labirinto dei veti incrociati, Renzi sarà messo con le spalle al muro. Probabilmente si arriverà in ogni caso alle elezioni, ma in un quadro politicamente confuso, con un Pd lacerato forse anche letteralmente. L’assalto al bilancio pubblico per scambiare prebende con voti diventerà incontrollabile. E a quel punto non resterà che la Trojka, un governo di salute pubblica, un’insalata greca dalla quale non ci riprenderemo facilmente, come non si è ripresa la Grecia nonostante la propaganda dell’Ue. E l’idea che possiamo salvarci con una uscita “ordinata” dall’euro sarà solo “un racconto recitato da un idiota gonfio di suono e di furia, che non significa nulla”.