E veniamo ora alla Fed e alle sue decisioni di mercoledì, le stesse che negli ultimi due giorni hanno messo le ali ai mercati nonostante tutte le tensioni finanziarie e geopolitiche esistenti. Il comitato monetario della Federal Reserve, infatti, ha mantenuto invariati i tassi di interesse negli Stati Uniti al minimo storico dello 0-0,25%, scelta che sposta la lancetta dell’ultimo aumento dei tassi al giugno del 2006 e dell’ultima riduzione, fino ai minimi attuali, al dicembre del 2008. Tuttavia, come è sua abitudine, la Banca centrale segnala chiaramente un ulteriore miglioramento dell’economia Usa, prodromo quindi di un possibile rialzo, ma parla anche di un approccio sul costo del denaro “paziente” e coerente con l’orientamento del comunicato “precedente”, che parlava di un tasso di interesse vicino allo zero per «un considerevole periodo di tempo».



Detto fatto, per la maggior parte degli analisti la Fed non agirà sul costo del denaro prima del giugno del prossimo anno e il casinò di Wall Street è ripartito in grande stile. Tanto più che la stessa numero uno dell’istituto, Janet Yellen, ha sì parlato di «cambiamenti significativi della politica monetaria», salvo però sottolineare come sia improbabile un aumento dei tassi di interesse per i prossimi due vertici, ovvero per tutto il primo trimestre del 2015. Per la Yellen, «le condizioni potrebbero essere appropriate a metà del prossimo anno, ma dipenderà dai progressi che starà facendo l’economia». Insomma, vaghezza tipica di chi sa di essere seduto su una bomba a orologeria e non vuole fare la fine di Will Coyote.



Il problema è che in determinati ambienti ci si è sì lanciati a comprare come se non ci fosse un domani, ma con una chiara idea in testa: il rialzo dei tassi, minimo ma anticipato, potrebbe essere l’arma letale nella guerra contro Putin e contro il cartello Opec che sta schiantando il business dello shale oil statunitense, tenendo il prezzo del petrolio ai minimi storici. I primi a pagare dazio da una simile ipotesi, infatti, sarebbero i Paesi emergenti, già colpiti la scorsa estate dai timori del “taper” proprio della Fed, con le banche centrali pronte ad alzare i tassi e bruciare miliardi di riserve per evitare che le loro valute diventassero carta straccia, i quali nel loro insieme hanno preso a prestito qualcosa come 5,7 triliardi in dollari, valuta che non solo non possono stampare ma che non controllano: in un decennio il loro debito è triplicato, raggiungendo i 3,1 triliardi in prestiti bancari e 2,6 triliardi in obbligazioni.



Il problema è che quei soldi sono stati presi in prestito all’1% in base all’assunto implicito che la Fed avrebbe continuato a inondare il mercato di liquidità perenne, ora invece, usando un termine tecnico, questi paesi sono “short” sul dollaro e potrebbe scattare la margin call scatenata dai padroni del vapore, leggi gli Usa. Per la Banca dei regolamenti internazionali le nazioni emergenti oggi potrebbero essere vulnerabili a uno shock sul dollaro esattamente come nei tardi anni Novanta, quando la restrizione della Fed non a caso scatenò la crisi asiatica e il default russo (complice, déjà vu, il prezzo del petrolio): peccato che oggi quei paesi contino per la metà dell’economia mondiale ma abbiano un debito aggregato che ha raggiunto il record del 175% del Pil, il 30% in più dal 2009 a oggi.

Mettete nel calderone il fatto che la Cina non è più in grado di reggere il super-ciclo delle commodities perché sta rallentando il suo tasso di crescita e la crisi russa ed ecco la tempesta quasi perfetta: il greggio ai minimi non sta facendo soffrire solo Mosca ma anche Nigeria, Venezuela e altri Paesi esportatori. E non solo: la Turchia, che dovrebbe essere un beneficiario del greggio così basso nel prezzo, ha visto la lira crollare del 12% da fine novembre e l’indice della Borsa di Istanbul giù del 20% in termini denominati in dollari, mentre mercoledì l’Indonesia è dovuta intervenire per difendere la rupiah, il real brasiliano è sceso ai minimo da dieci anni sul dollaro l’indice Bovespa di San Paolo è sceso del 23% in tre settimane.

Cosa succederebbe se i grossi fondi, come Pimco, vedessero i loro clienti chiedere indietro i loro soldi perché spaventati? Dovrebbero vendere le loro detenzioni, generando una spirale autoalimentante al ribasso. Sell-off, insomma: un disastro. Per Stephen Jen della SLJ Macro Partners, «il mondo della finanza sta ruotando il suo asse, più forte sarà il boom degli Usa, peggio sarà il destino di quelle nazioni che stanno dalla parte sbagliata rispetto al dollaro. Penso che sia altamente probabile una crisi in stile 1997-1998 l’anno prossimo, se la ripresa Usa prende slancio nulla potrà fermare l’outflows di capitali dai mercati emergenti verso assets denominati in dollari».

Inoltre, ormai in queste nazioni il debito privato sia è tramutato implicitamente in debito pubblico, ma quanto questo potrà essere gestito, quanto reggerà il backstop statale prima che i mercati si spaventi e dicano bye bye? Ma non c’è via d’uscita, il Cremlino non può fare spallucce verso i 50 miliardi di dollari di debito estero di Rosneft, così come il governo brasiliano non può disinteressarsi dei 170 miliardi di dollari di debito di Petrobas: non a caso, Standard&Poor’s nel suo ultimo report ha detto chiaro e tondo che se non ha tagliato il rating di Petrobas a “spazzatura” è solo per l’implicito supporto dello Stato verso l’azienda. Piaccia o meno, viviamo ancora in un mondo denominato in dollari, non in euro o rubli: sono i Treasury Usa il benchmark per i mercati globali del credito, non il Bund e i derivati sono strumenti prezzati in dollari.

Stando a calcoli di Bank of America, se la Bce si unisse a tutta forza a Bank of Japan in una misura di stimolo riuscirebbe a garantire nel combinato un offsetting solo del 30% rispetto a quando fatto dalla Fed negli anni. Insomma, più che prezzare un rinvio del taglio dei tassi, forse i grandi player stanno facendo soldi su altre due variabili: gli Usa che impongono di nuovo e con forza il dollar standard a livello mondiale e la Fed che, casualmente, vede rischi deflattivi e fa partire un Qe4, in stile minore ma pur sempre consistente.

Tornando alla Russia, le sue riserve di circa 400 miliardi possono funzionare da protezione contro uno shock esterno, come ad esempio proprio un calo del prezzo delle commodities ma non da rimedio per i problemi interni del Paese: per il professore di economia dell’Harvard Kennedy School, Carmen Reinhart, «la banca centrale russa può vendere le sue riserve e alzare i tassi ma non può stampare dollari». Insomma, può guadagnare un po’ di tempo ma non risolve il problema alla radice: «Occorre che quel tempo venga utilizzato per cambiare le politiche e restaurare la fiducia, altrimenti non fai altro che bruciare le riserve e prolungare il problema».

Ora gli scenari sono paradossalmente tre: ovvero, la Cina soccorre finanziariamente la Russia; Putin è costretto a scendere a patti, almeno sull’Ucraina, per evitare un’escalation pericolosa per la sua stessa leadership; la Russia sfrutta la partnership con Cina e India, anch’essi paesi con enormi riserve auree e forza la mano dando vita a un’alternativa al dollaro che sia sostenuta appunto dall’oro fisico.

Vediamoli brevemente. Nel primo caso, Pechino sta già monitorando con attenzione e non poca preoccupazione gli accadimenti, tanto che giovedì la State Administration of Foreign Exchange (Safe), attraverso il suo rappresentante, Wang Yungui, ha reso noto come «gli impatti della svalutazione del rublo sono ancora poco chiari e la Safe sta quindi monitorando e incoraggiando le aziende a dare vita a forme di hedging sulla valuta russa». Insomma, Pechino non sta alla finestra, tanto che in base a un accordo dello scorso ottobre, la Russia può contare su 150 miliardi di yuan (24 miliardi di dollari) di accordo valutario swap con Pechino, patto che nasce proprio come riduzione del ruolo del dollaro in caso Cina o Russia dovessero avere bisogno di aiuto per superare una crisi di liquidità.

Qual è il rischio di questa opzione? Ne abbiamo parlato prima, al ritmo a cui sta bruciando le sue riserve e con le necessità di roll-over sul loro debito esterno delle aziende, anche statali, aggravato dalla svalutazione del rublo, se anche l’intera linea di swap potesse essere sfoderata in un’unica tranche immediata, potrebbe rivelarsi soltanto un segnale politico di attenzione della Cina verso Mosca, ma avrebbe effetti reali praticamente nulli.

Seconda opzione, la crisi entra in una spirale non più gestibile, i cittadini cominciano ad assaltare negozi e banche nel timore che i loro rubli non valgano più niente e tentino di convertirli in dollari o euro, Putin impone controlli di capitale, la situazione sociale, unita a quella economica e al fronte ucraino, spiana la porta alle forze di opposizione. A quel punto, Vladimir Putin dovrebbe cercare di mediare, quasi certamente offrendo un accordo di pace duratura sul Donbass e magari aprendo a progetti meno “aggressivi” verso l’Occidente, il quale in cambio prima blandisce e poi elimina del tutto le sanzioni. Anche perché lunedì scorso, quando il rublo ha perso in un giorno il 15%, è stato palese sui mercati come altre forze siano al lavoro per schiantare la valuta russa. Non a caso, infatti, proprio lunedì si teneva in Russia un asta di liquidità da 700 miliardi di rubli (quasi 11 miliardi di dollari) e prima che questa avesse inizio, il gigante petrolifero Rosneft aveva racimolato sul mercato 675 miliardi di rubli attraverso un’emissione obbligazionaria garantita proprio dalla Banca centrale, la quale rapidamente subito dopo ha operato il clearing sui bond a minor rendimento trasformandoli in collaterale per le banche che dovevano finanziarsi alla sua asta.

Nessuno sa chi ha comprato quei bond, ma Rosneft ha ufficialmente dichiarato che il processo sarebbe servito per finanziare progetti interni e non andava a toccare il mercato valutario estero. Qualcosa però non torna, visto che le sussidiarie di Rosneft e le loro rispettive banche erano preparate – o forse finanziate da Rosneft per farlo – per l’emissione obbligazionaria, dopo la quale hanno potuto rifinanziare i bond presso la banca centrale con un profitto dal 5% al 10%. Insomma, l’idea è che le banche abbiano comprato i bonds, girati poi in uno swap valutario estero alla Banca centrale e poi passato il cash ottenuto da quest’ultima a Rosneft attraverso un altro swap: la quantità di denaro precipitata sul mercato attraverso un meccanismo simile, infatti, potrebbe sicuramente giustificare il tonfo del rublo sul dollaro di quel giorno. Ma dice anche altro, ovvero quanto Rosneft sia messa male, se per finanziarsi deve ricorrere a giochini simili: con 10,2 miliardi di debito da ripagare nell’ultimo trimestre di quest’anno, il gigante entro ieri doveva saldare un roll-over da 6,88 miliardi di dollari. Ecco, forse, spiegata tanta disperazione.

Terza opzione, nonostante per giorni Societe Generale abbia detto che la Russia aveva venduto oro per 4,3 miliardi di dollari nella prima settimana di dicembre per finanziarsi, proprio ieri Vladimir Putin ha smentito tutti dicendo che non solo Mosca non vende, ma in novembre ha comprato altre 600mila once di metallo fisico, portando così il totale delle riserve al 1 dicembre a 32,8 milioni di once. Insomma, Vladimir Putin non intende fare cassa ma forse suggerire a Cina e India una nuova valuta “true-gold backed” per bypassare il dollaro negli scambi commerciali, quantomeno trilaterali all’inizio? Lo escluderei, almeno ora con Mosca così vulnerabile a shock esterni e attacchi speculativi e Pechino non in grado di proteggerla con una forza di intervento finanziario rapido, stile bazooka di liquidità, visto che la Banca centrale cinese sta cercando di far flettere la bolla del credito e sta contraendo, non operando politiche di stimolo. E poi, bypassare il dollaro negli scambi commerciali sarebbe giù una sfida enorme ma tutto quell’oro tolto da possibili movimenti mercato e messo a garanzia di una valuta, che effetto avrebbe sul mercato dell’oro di carta di Wall Street e Londra?

Al mondo si sono scatenate guerre per molto meno, vi garantisco. Una cosa però mi fa propendere una soluzione diplomatica e non troppo shock per il mercato: sapete perché Societe Generale ha messo in giro la voce della vendita d’oro russo? Per cercare di stabilizzare l’economia di Mosca e il rublo. E perché lo ha fatto? Presto detto: la banca francese è esposta per 25 miliardi di euro in Russia, stando a calcoli di Citigroup, l’equivalente del 62% dell’equity tangibile del gigante del credito parigino. E la banca cooperativa austriaca Raiffesen? Non sta meglio, con 15 miliardi di euro di esposizione, il doppio dell’equity tangibile, a cui va a unirsi un’esposizione anche all’Ucraina per 4,9 miliardi di euro. E Unicredit? Terzo gruppo bancario europeo? Ben 18 miliardi di euro di esposizione alla Russia, circa il 40% del suo book value tangibile, sempre stando a dati Citigroup non smentiti dagli interessati.

Capito perché, alla fine, tutti hanno qualcosa da perdere dal crollo della Russia, Europa in testa, come ha dimostrato ieri l’intemerata anti-sanzioni del ministro degli Esteri tedesco? Meditate gente.

 

(2- fine)